Nella
scala degli antichi, sacri e inviolabili valori tribali africani,
convivono Il “Moolaadè”, il rispetto del
diritto d’asilo, e la “Salindè”, la
pratica dell’escissione, della mutilazione permanente
degli organi genitali femminili, spesso causa di morte, molto
simile all’ancor più devastante “infibulazione”.
Si tratta di antichissime pratiche tribali, nate prima della
civiltà giudaico cristiana - che non hanno dunque nulla
a che vedere con i dettami dell’Islam -, come forma di
controllo, per impedire alla donna di avere rapporti sessuali
prematrimoniali, in seno ad una società patriarcale e
radicalmente maschilista.
Contraria alla “Salindè”, Collè Ardo,
una donna di un villaggio del Burkina Faso che sette anni prima
si era opposta con successo al trattamento di sua figlia, ricorre
ora alla “Moolaadè” per sottrarre quattro
bimbette fuggitive all’atroce usanza, a quella macabra
e violenta “liturgia” demandata ad inquietanti “sacerdotesse”
(donne, “mammane” preistoriche, dunque) vestite
di rosso, “Furie” barbariche agli ordini delle “autorità”
tribali maschili. Approfittando della temporanea assenza del
marito, la donna accoglie amorevolmente le ragazzine terrorizzate
nella capanna condivisa con le altre due mogli che compongo
il piccolo harem, determinata a battersi coraggiosamente per
affermare il sacrosanto e naturale diritto all’incolumità
e all’integrità psicofisica della persona umana,
di giovani ed indifese coscienze in divenire, sostenuta nel
suo intento da alcune donne del villaggio più sensibili
ed emancipate. E’ tuttavia, quello filmico, un discorso
più ampio sull’emancipazione della donna africana
– laddove qualche raro esemplare di maschio inizia a prendere
coscienza del proprio ingrato ruolo –, sottomessa in altri
modi, costretta a rinunciare alla sua unica finestra sul mondo
rappresentata da una radio confiscata poiché ritenuta
pericolosa dai “potenti” della tribù, dalle
semplici persone del villaggio educate alle ataviche e superstiziose
usanze radicate nel loro tessuto sociale.
Secondo film di una trilogia intitolata Heroisme
Au Quotidien (Faat Kinè
del 1999, omaggio alla donna africana, il primo; ancora in fase
di completamento La Confrèrie Des
Rats, il terzo), lo spirito di Moolade'
(“Un certain regard” a Cannes 2004), traspare
dalle parole dello stesso regista senegalese, Ousmane Sembene,
dotato di grande vitalità e passione nonostante i suoi
83 anni suonati: “Je ne sais pas encore puorqoi je filme,
mais tout un peuple m'habite et je dois témoigner de
mon temps … En Afrique, on ne fait pas de cinèma
pour vivre mais pour communiquer. Pour militer…”.
Moolade' è un vivido e lucido
affresco cinematografico di smagliante bellezza formale e contenutistica,
visivamente affascinante, un racconto realistico e nello stesso
tempo simbolico e poetico sullo scontro tra le remote, inamovibili
e crudeli superstizioni e l’azione emancipatrice - essenzialmente
al femminile – che si oppone a quelle dopo secoli di inappellabile
sudditanza.
La messinscena di Ousmane Sembene, in linea con la tradizione
orale della sua cultura, della cultura tribale africana, è
una sorta di antica rappresentazione mimico-teatrale, un armonioso
recitar-cantando, dialogar cantilenando, che una sapiente e
plastica mdp tuttavia trasfigura in un tutto puramente filmico,
con piani di ripresa ravvicinati, sempre “dentro”
la storia, con movimenti misurati e “riflessivi”,
in una coralità di parole, gesti e simboli, di bellezze
di forme, di suoni, di colori vividi, della terra e della natura,
dove la parola ed il gesto diventano musica e danza. Dei corpi.
Dello spirito. Sembra incredibile che in quella sorta di paradiso
naturale, vi sia un’amara radice che riconduce lo spettatore
in un limbo di sdegnata incredulità. Nel finale, vi è
un’intenzione forse ingenuamente simbolica, sotto certi
aspetti discutibile, e che in ogni caso induce alla riflessione,
allorché, dopo aver inquadrato un uovo di struzzo collocato
in cima al “minareto” della moschea, la mdp sposta
il suo occhio su un’antenna televisiva che nel cambio
immagine ha “dicotomicamente” preso il posto di
quel simbolo (si suppone) della fertilità, della vita
stessa.
Il villaggio dell’azione filmica simboleggia (e chiama
in causa) tutti i luoghi del pianeta in cui questa disumana
pratica è ancora molto diffusa: in molti paesi africani,
ma anche nella penisola arabica e indonesiana, oltre che nelle
comunità emigrate in Europa, America e Oceania. Non a
caso l’uscita del film nelle sale italiane coincide con
l’8 Marzo, il giorno delle dolorose memorie, storiche
ed ancora tristemente legate all’attualità, di
tutte le donne del mondo. La distribuzione è patrocinata
da “Amnesty International” impegnata con altre istituzioni,
organizzazioni, associazioni della società civile e della
politica, nazionali ed internazionali, tra cui il “Comitato
delle Donne dell’Africa Occidentale”, a contrastare
il devastante fenomeno con ogni opportuno mezzo, con strumenti
giuridici, con adeguate pressioni affinché le leggi che
tutelano le donne siano realmente applicate dagli Stati che
le abbiano già ratificate. E’ una speranza da coltivare,
al pari delle alte e poetiche espressioni culturali ed artistiche
di cui le comunità afro-asiatiche si fanno portatrici,
che gelosamente custodiscono e tramandano alle future generazioni
(finendo per arricchire anche i paesi del “benessere”
con l’inalienabile valore della diversità, nel
riconoscimento delle comuni radici culturali che ci rendono
tutti simili), felici di ritrovarsi, un giorno non troppo lontano
dall’oggi, completamente affrancate da ogni forma di odiosa
e inammissibile violenza. [giuseppe
mariani]
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