Takata
Gou-ichi vive in un tranquillo e sperduto villaggio di pescatori
sulla costa nord-occidentale del Giappone. Su insistenza della
nuora Rie, si reca a Tokio per trovare il figlio ricoverato
in ospedale. I rapporti tra i due sono rovinati da ruggini
del passato, tanto che il figlio si rifiuta di riceverlo.
Una videocassetta consegnata dalla nuora a Takata è
la chiave per capire chi è diventato in questi anni
di lontananza il figlio, un appassionato di culture popolari
in particolar modo di una ballata antica di oltre mille anni:
‘Il viaggio solitario, mille miglia lontano’ tratto
dal Romanzo dei tre regni. La storia del potente generale
Guan Yu – che rifiuta titoli e ricchezze per cavalcare
per migliaia di chilometri in aiuto di un amico – è
diventata un simbolo di lealtà.
Questo la leva sulla quale Takata fa forza per intraprendere
un viaggio all’interno della Cina più remota
ed arretrata, tra difficoltà linguistiche e burocratiche,
viatico per una conoscenza di se e del figlio che in passato
aveva percorso i medesimi sentieri.
Zhang Yimou dopo due film ad alto tasso spettacolare e pieno
di effetti speciali come Hero
e La foresta dei pugnali volanti torna
ad un cinema più intimo ed umanista in cui l’uomo
con i suoi sentimenti e contraddizioni torna in primo piano.
Il valore della famiglia come nucleo su cui fondare la società,
la trasmissione della tradizione da generazione in generazione
attraverso i legami patriarcali sono alcuni dei temi toccati
da questo intenso dramma di amore incondizionato che procede
per ritmi lenti ma inesorabili, dilungandosi eccessivamente
nella sua parte finale.
Nel ruolo del padre, un monumento del cinema giapponese, una
sorta di Clint Eastwood orientale dal carisma ipnotico come
Ken Takakura, circondato da un manipolo di attori non professionisti
che riscopre il talento di Zhang Yimou nello scovare visi
ed espressioni virginali rispetto la macchina da presa. [fabio
melandri]