‘Geisha’
in giapponese significa ‘artista’; della danza,
della musica, della conversazione, dell’arte del te, del
dare piacere in tutte le sue forme. Una figura mitica la cui
origine si perde nella notte dei tempi ed i cui echi sono giunti
sino a noi coperti da un velo di mistero e di sapori lontani.
Una figura che nell’immaginario collettivo occidentale,
così abituato a consumare tutto e subito, a ridurre per
semplificazioni, ha acquisito una bidimensionalità assolutamente
fuorviante e comparabile ad una figura dai comportamenti leggeri
e licenziosi; una dama di compagnia il cui piacere è
pura fisicità, una sorta di prostituta per alta società.
Ci si augurava che a riaffermare la verità su tale figura
contribuisse almeno in parte Memorie di una geisha, tratto dall’omonimo
bestseller – e qui il primo campanello di allarme –
di Arthur Golden. Il romanzo nato da una serie di conversazioni
avute con una vera geisha da parte di Golden, laureato in Storia
dell’Arte e con un Master in Storia del Giappone, avrebbe
dovuto nelle intenzioni dell’autore sfatare il mito di
cui sopra e riaffermare una verità che è innanzitutto
storica.
Questo non accade, almeno nella pellicola diretta da Rob Marshall,
autore del pluripremiato Chicago
cinematografico. Se in Chicago
Marshall, che proveniva dai palcoscenici del West End londinese
in cui aveva messo in scena la medesima opera, conosceva la
materia che maneggiava e l’aggrediva plasmandola con la
macchina da presa e mezzi prettamente cinematografici, in questa
sua seconda fatica, vuoi perché chiamato in sostituzione
del rinunciatario Spielberg - rimasto in veste di produttore
- vuoi perché di fronte ad una materia a lui poco congeniale,
si limita ad un calligrafismo di maniera, elegante quanto si
vuole, ma sterile e privo di invenzioni visive e narrative che
vivacizzino una materia altresì indolente ed apatica
come norme e regole che trasformano una giovane bambina dai
natali umili a geisha tra le più ricercate e desiderate.
Il film soffre di quella superficialità che si voleva
in realtà affrontare e sconfiggere con la storia dell’amore
impossibile della geisha Sayuri (Zhang Ziyi, Hero
e La foresta dei pugnali volanti)
ed il Sovrintendente (Ken Watanabe, L’ultimo
samurai) che fagocita rituali e regole di comportamento
che avrebbero bisogno di un’opera loro dedicata completamente.
Ma essendo un film pensato per piacere ad un pubblico prevalentemente
occidentale affascinato dal quel turistico esoticismo oggi materializzatosi
nei sempre più frequenti sushi-bar, il dramma amoroso
conquista velocemente il proscenio per non abbandonarlo più.
E non aiuta di certo la leggerezza dell’opera e la sua
scorrevolezza la costante presenza della voce-off narrante ed
onnisciente della protagonista che spiega troppo e tutto, invadendo
ogni singola inquadratura del film.
Forse sarebbe stato necessario un occhio giapponese, una sensibilità
meno votata allo spettacolo per poterci accompagnare per mano
all’interno di un mondo che è più animistico
che fisico, filosofico che pedagogico. Rimane un’opera
incompiuta, un’occasione mancata, più noiosa che
affascinante, più illustrativa che formativa.
[fabio melandri]
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