Monicelli
continua a parlarci di perdenti. Novantunanni, sessantaquattro
film dal '49 in poi (ma sarebbe il caso di ricordarsi che
un "lungo", sotto pseudonimo, lo aveva già
diretto nel '37, e che nel '35 era a Venezia con I
ragazzi della via Paal...)
e ancora lo sguardo sveglio e la penna intinta nel veleno.
Il terzo reparto della trentunesima sezione sanità
si accampa nei pressi di Sorman, un'oasi sperduta nel deserto
Libico, e la prima cosa che dimostrano è che non sono
dei militari nel senso stretto del termine.
Il comandante, Maggiore Strucchi, passa il suo tempo a scrivere
lettere d'amore alla moglie e demanda tutte le incombenze
del comando agli altri, il tenente Salvi si sente più
un turista che un fascista e attraversa il campo scattando
foto. Nell'oasi conoscono un religioso Italiano, frate Simeone,
che più che un prete è un pragmatico, uomo di
fede, certo, ma sopratutto un combattente, che ha messo su
una piccola scuola e risolve con forza i problemi di ogni
giorno, ed anche per questo si integra bene con un gruppo
di soldati che si comportano più da missione umanitaria
che da truppa d'occupazione.
All'inizio la guerra vera è lontana dall'ospedale da
campo, i suoi echi arrivano distorti dai roboanti e vuoti
bollettini di guerra fascisti, e la rigidità della
vita militare si scioglie nelle necessità giornaliere,
nel curare indifferentemente gli italiani e gli arabi, nello
scherzare per passare il tempo, e nell'illusione che la guerra
durerà poco: un mese al massimo. Lentamente quest'ultima
illusione svanisce e la truppa si ritrova a fraternizzare
con la gente del posto, almeno fino a quando Salvi non farà
la sciocchezza di andare un po' trpppo in la con le confidenze
nei confronti della nipote del capo tribù anziano,
ed a ridere degli sbagli grossolani dell'organizazione militare
italiana, che per Natale fa arrivare per sbaglio i maglioni
destinati alle truppe del fronte greco-albanese.
Tutto questo gioco finirà di colpo: la marcia trionfale
del Maresciallo Graziani verso l'Egitto si trasforma in una
fuga rovinosa, che mette in evidenza tutta l'inadeguatezza
dell'Italia a quella guerra, ed in alcuni casi la vigliaccheria
egoista dei nostri soldati.
Poi un altro scossone: l'insperato arrivo di Rommel e dei
tedeschi, e se gli Italiani sono inadeguati e ridicoli, questi
ultimi sono puliti, ordinati, ma, purtroppo, spietati.
Tra la riconquista di Tobruk e la sua nuova disfatta il tempo
è poco, ma in questo poco tempo la truppa da il meglio
ed il peggio di se, e il film finisce su una croce, che forse
è non solo la tomba di un amico, ma anche la tomba
delle loro illusioni.
Monicelli non perde il suo senso ironico, il gusto per la
provocazione ed il "vizio" di dirigere cori. Ancora
il tema della sconfitta è evidente in questo lavoro,
i personaggi sono, come accade spesso nei suoi film, un gruppo
eterogeneo ma compatto, la riuscita mescolanza delle età
e dei dialetti dei protagonisti aiuta tutto questo. Monicelli
mette in bocca dei suoi personaggi affermazioni e riflessioni
che possono suonare inusuali nel 1941, ma arrivano dritte
agli orecchi degli italiani di oggi, che vivono la situazione
mediorientale forse senza saperne davvero molto, in fondo
sembra che ci dica: "guardate che come noi non sapevamo
la verità attraverso i bollettini di guerra all'epoca,
non la sappiamo neppure adesso", chissà se
è così.
Tecnicamente buono, d'altronde dopo una vita passata a fare
film Monicelli probabilmente si muove su un set come un pesce
nell'acqua, ma sopratutto una bella storia, raccontata bene,
che si discosta dalla Grande Guerra
perchè non vuole essere ricostruzione storica e che
si avvicina ai temi cari all'autore senza far pensare a chi
guarda che sta cercando di rifare un vecchio successo.
Haber "per il bene che ti voglio" è notevole,
un capo che non comanda: al massimo guida e consiglia, citando
Omero. Un uomo che ama una moglie che probabilmente lo tradisce
e che quando questa muore non trova più ragioni per
vivere, ma trova, per caso e sbagliando la forma, la forza
per provare reagire a cose che sono assurde, e muore, emblematicamente,
in silenzio. Palcido interpreta frate Simeone con disinvoltura:
non è un militare, ma è un capo; ed è
quello che ci vuole in quella situazione. Bravo, maturo, misurato,
non cade mai nel tranello di prendersi sul serio e forse questo
personaggio potrbbe essere lo stesso Monicelli, come minimo
la sua opinione. Pasotti non sfigura a fianco dei due attori
maturi, dimostra di poter diventare un ottimo attore, arricchendosi
dalla possibilità di lavorare con un direttore come
Monicelli che sa far fare quel che vuole ai propri attori.
Molto divertente la Macchietta interpretata da Tatti Sangiuneti,
il generale fascista da barzelletta: come tutti se lo aspettano
e prtroppo anche con tutte le ottusità, anche tremende,
dei militari da barzelletta. Ci vuole tanta autoironia per
fare il critico ed intrpretare un ruolo del genere. [jacopo
angiolini]