Le rose del deserto
id.
Regia
Mario Monicelli
Sceneggiatura
M. Monicelli, A. Bencivenni, Domenico Saverni
Fotografia
Saverio Guarna
Montaggio
Bruno Sarandrea
Scenografia
Lorenzo Baraldi
Costumi
Francesca Sartori
Fonico
Gianluca Costamagna
Produzione
Luna Rossa Cinematografica
Interpreti
Michele Placido, Alessandro Haber, Giorgio Pasotti, Fulvio Falzarano, Moran Atias, Claudio Bigagli, Michel Alhaique, Nicola Acunzo, Tiziano Scarpa
Anno
2006
Genere
drammatico
Nazione
Italia
Durata
102'
Distribuzione
Mikado
Uscita
1-12-06

Monicelli continua a parlarci di perdenti. Novantunanni, sessantaquattro film dal '49 in poi (ma sarebbe il caso di ricordarsi che un "lungo", sotto pseudonimo, lo aveva già diretto nel '37, e che nel '35 era a Venezia con I ragazzi della via Paal...) e ancora lo sguardo sveglio e la penna intinta nel veleno.
Il terzo reparto della trentunesima sezione sanità si accampa nei pressi di Sorman, un'oasi sperduta nel deserto Libico, e la prima cosa che dimostrano è che non sono dei militari nel senso stretto del termine.
Il comandante, Maggiore Strucchi, passa il suo tempo a scrivere lettere d'amore alla moglie e demanda tutte le incombenze del comando agli altri, il tenente Salvi si sente più un turista che un fascista e attraversa il campo scattando foto. Nell'oasi conoscono un religioso Italiano, frate Simeone, che più che un prete è un pragmatico, uomo di fede, certo, ma sopratutto un combattente, che ha messo su una piccola scuola e risolve con forza i problemi di ogni giorno, ed anche per questo si integra bene con un gruppo di soldati che si comportano più da missione umanitaria che da truppa d'occupazione.
All'inizio la guerra vera è lontana dall'ospedale da campo, i suoi echi arrivano distorti dai roboanti e vuoti bollettini di guerra fascisti, e la rigidità della vita militare si scioglie nelle necessità giornaliere, nel curare indifferentemente gli italiani e gli arabi, nello scherzare per passare il tempo, e nell'illusione che la guerra durerà poco: un mese al massimo. Lentamente quest'ultima illusione svanisce e la truppa si ritrova a fraternizzare con la gente del posto, almeno fino a quando Salvi non farà la sciocchezza di andare un po' trpppo in la con le confidenze nei confronti della nipote del capo tribù anziano, ed a ridere degli sbagli grossolani dell'organizazione militare italiana, che per Natale fa arrivare per sbaglio i maglioni destinati alle truppe del fronte greco-albanese.
Tutto questo gioco finirà di colpo: la marcia trionfale del Maresciallo Graziani verso l'Egitto si trasforma in una fuga rovinosa, che mette in evidenza tutta l'inadeguatezza dell'Italia a quella guerra, ed in alcuni casi la vigliaccheria egoista dei nostri soldati.
Poi un altro scossone: l'insperato arrivo di Rommel e dei tedeschi, e se gli Italiani sono inadeguati e ridicoli, questi ultimi sono puliti, ordinati, ma, purtroppo, spietati.
Tra la riconquista di Tobruk e la sua nuova disfatta il tempo è poco, ma in questo poco tempo la truppa da il meglio ed il peggio di se, e il film finisce su una croce, che forse è non solo la tomba di un amico, ma anche la tomba delle loro illusioni.
Monicelli non perde il suo senso ironico, il gusto per la provocazione ed il "vizio" di dirigere cori. Ancora il tema della sconfitta è evidente in questo lavoro, i personaggi sono, come accade spesso nei suoi film, un gruppo eterogeneo ma compatto, la riuscita mescolanza delle età e dei dialetti dei protagonisti aiuta tutto questo. Monicelli mette in bocca dei suoi personaggi affermazioni e riflessioni che possono suonare inusuali nel 1941, ma arrivano dritte agli orecchi degli italiani di oggi, che vivono la situazione mediorientale forse senza saperne davvero molto, in fondo sembra che ci dica: "guardate che come noi non sapevamo la verità attraverso i bollettini di guerra all'epoca, non la sappiamo neppure adesso", chissà se è così.
Tecnicamente buono, d'altronde dopo una vita passata a fare film Monicelli probabilmente si muove su un set come un pesce nell'acqua, ma sopratutto una bella storia, raccontata bene, che si discosta dalla Grande Guerra perchè non vuole essere ricostruzione storica e che si avvicina ai temi cari all'autore senza far pensare a chi guarda che sta cercando di rifare un vecchio successo.
Haber "per il bene che ti voglio" è notevole, un capo che non comanda: al massimo guida e consiglia, citando Omero. Un uomo che ama una moglie che probabilmente lo tradisce e che quando questa muore non trova più ragioni per vivere, ma trova, per caso e sbagliando la forma, la forza per provare reagire a cose che sono assurde, e muore, emblematicamente, in silenzio. Palcido interpreta frate Simeone con disinvoltura: non è un militare, ma è un capo; ed è quello che ci vuole in quella situazione. Bravo, maturo, misurato, non cade mai nel tranello di prendersi sul serio e forse questo personaggio potrbbe essere lo stesso Monicelli, come minimo la sua opinione. Pasotti non sfigura a fianco dei due attori maturi, dimostra di poter diventare un ottimo attore, arricchendosi dalla possibilità di lavorare con un direttore come Monicelli che sa far fare quel che vuole ai propri attori. Molto divertente la Macchietta interpretata da Tatti Sangiuneti, il generale fascista da barzelletta: come tutti se lo aspettano e prtroppo anche con tutte le ottusità, anche tremende, dei militari da barzelletta. Ci vuole tanta autoironia per fare il critico ed intrpretare un ruolo del genere. [jacopo angiolini]