Figlia
di genitori separati, Veronica è costretta dalla madre
a trascorrere le vacanze estive a Tybee, un’isola al
largo della costa della Georgia, col padre e il fratellino
saputello ma generoso. Veronica ha avuto guai con la giustizia,
un piccolo furto che l’ha marchiata in famiglia e tra
gli amici come una ribelle e una disadattata, adolescente
da redimere e da riportare sulla retta via, ma con il rischio
di perderla sempre. Ha un talento per la musica ereditato
dal padre, a cui ha rinunciato così come ha abbandonato
i propositi di iscriversi all’università. Ha
sedici anni come Miley Cyrus la star che la interpreta e che
è stata lanciata dal ruolo idolo delle teenager, Hannah
Montana. E come lei ha un broncio stampato sul viso e irriducibile
a ogni entusiasmo. Si rifiuta di mettersi al centro dell’attenzione
in spiaggia, dove si veste rigorosamente di nero e al posto
del bikini indossa magliette trasandate e stivali invernali.
Recita la parte del brutto anatroccolo che si ostina a rimanere
tale e a non trasformarsi in cigno. Ma nonostante faccia di
tutto per non apparire, affetta dalla classica sindrome dell’invisibilità,
viene notata dal belloccio di turno, un Big Jim biondo, atletico
e dagli occhi azzurri, dai mille talenti (dalla pallavolo
al volontariato per l’istituto di biologia marina al
lavoro da meccanico dell’officina del padre) e dalla
famiglia più ricca e più aristocratica di tutto
il sud degli Stati Uniti.
Ma un amore estivo potrà durare anche oltre i baci
dati di notte abbracciati davanti a un romantico falò?
Se nella prima parte il punto di vista è del padre
che cerca di penetrare nei segreti della figlia, nel momento
in cui l’amore col coetaneo sembra risolto, ecco che
il punto di vista si ribalta e ciò che resta da svelare
è l’enigma del padre. Chi è veramente
quest’uomo che ha rinunciato alla famiglia, al pianoforte,
alla pittura su vetro e ha dato fuoco alla chiesa, macchiandosi
irrimediabilmente di una colpa da cui sembra non potersi più
riscattare?
Da parallelo il percorso di padre e figlia, si fa coincidente,
grazie ad una struttura di rimandi, semine e raccolte che
tiene armonizzate tutte le trame e sottotrame, e veniamo a
scoprire qual è il nucleo essenziale che il film ci
vuole raccontare, il suo conflitto e la sua ossessione, il
rapporto tra un padre e una figlia, tra la vita e la morte,
tema privilegiato dei romanzi di Nicholas Sparks, qui chiamato
dalla Disney a cucire su misura un ruolo cinematografico per
l’esordio di Miley Cyrus. Tema che si declina nell’universo
musicale, e di conseguenza la musica come salvezza dell’anima,
la mortalità in dialettica opposizione all’immortalità,
la scelta tra la trascendenza della moralità cristiana
e l’immanenza del buddismo contenuta in una statuetta
del Budda posta strategicamente sul pianoforte ma mai messa
in primo piano dalla macchina da presa. Da commedia sentimentale
a melodramma il film pretende di riflettere e di far riflettere
le ragazzine sul senso della vita dopo la morte e su quanto
possiamo intervenire per aiutare gli altri a trovare la propria
strada, metafora narrativizzata dalle tartarughe marine di
cui si occupa amorevolmente la protagonista.
Hanno molti dubbi alla Disney Italia che The
Last Song possa ottenere il successo che ha riscosso
in America e per evitare il tonfo, si sono mobilitati con
una campagna marketing imponente tra anteprime con le scuole
e concorsi vari, con la speranza non troppo nascosta di puntare
al passaparola e di creare un culto intorno al prodotto, trasformando
la visione del film in un evento. Non si va più al
cinema per godersi un bel film, ormai si esce di casa solo
per “l’evento”, Avatar,
Scontro tra titani, Alice in Wonderland.
Ci sono due fattori che però gli giocano contro. Miley
Cyrus in Italia non ha quella notorietà tale da sbancare
i botteghini e da spingere le ragazzine una domenica di primavera
a uscire di casa per rimanere due ore sedute in poltrona.
È una star ma per quanto planetaria, non di richiamo
così forte nel nostro territorio. Il secondo fattore
è il filone a cui Last Song appartiene: i film costruiti
intorno a una star del pop hanno quasi sempre prodotto disastri
commerciali, tranne Whitney Huston con Bodyguard,
tra Michael Jackson, Madonna, le Spice Girls e Mariah Carey,
l’incontro tra i due mondi, cinema e musica, ha generato
flop. In più la scelta di Nicholas Sparks alla sceneggiatura,
affiancato da tale Jeff Van Wie uomo d’affari prestato
alla scrittura, rischia di essere controproducente, soprattutto
per la virata luttuosa con cui si piega nel finale. Queste
tre combinazioni unite ad una regia poco più che televisiva,
rendono il film assolutamente dimenticabile, ma da preferire
per qualità narrativa e ritmo agli omologhi di Moccia
e Silvio Muccino. Almeno in America gli adolescenti stereotipati
li sanno raccontare meglio.
[matteo cafiero]