Presentato
al Festival di Berlino in cui si è aggiudicato il Premio
alla Migliore regia, è uscito nelle sale italiane successivamente
a Ferro 3 presentato alla Mostra
del Cinema di Venezia, La samaritana
ci conduce con leggerezza e toni assai sfumati, nel mondo del
regista coreano in cui è possibile ritrovare alcuni tratti
oramai riconosciuti e riconoscibili. Personaggi border-line
come due giovani ragazze che si prostituiscono per guadagnare
i soldi di un viaggio in Europa (Bad Guy);
una sceneggiatura in cui sguardi, gesti, silenzi assumono una
forte valenza narrativa al pari dei dialoghi – qui assai
sviluppati e ricchi rispetto la cinematografia passata del maestro
coreano -; una divisione in capitoli che è una vera e
propria dichiarazione di intenti nel voler costruire un racconto
morale che affronta i temi della colpa, del perdono e della
comprensione come in Primavera, Estate,
Autunno, Inverno... e ancora Primavera; uno stile registico
asciutto, geometrico, rigoroso al servizio del talento kim-ki-duckiano
di saper dirigere in modo eccellente i propri attori.
Il primo episodio, Vasumitra dal
nome leggendario di una prostituta capace di convertire al buddismo
i suoi clienti, racconta la vita di due giovani prostitute Jae-young,
che finisce per affezionarsi ai suoi clienti, e Yeo-jin, figlia
di un poliziotto, che amministra prima i traffici dell’amica
per poi seguirne la strada. Un episodio cha attraverso il rapporto
tra le due ragazze e tra queste e i loro clienti, ci racconta
l’intimità del rapporto umano, in cui la caramalità
dei corpi – sempre in primo piano nei precedenti film
del regista – viene lasciata sullo sfondo a favore dell’approfondimento
emotivo. Segue l’episodio Samaria,
in cui Yeo-jin a seguito della morte violenta dell’amica
decide di restituire ai clienti i soldi che avevano guadagnato
l'amica in un percorso a ritroso che la fa precipitare in quella
dimensione umanista che l’amica aveva compreso ma non
era riuscita a trasmetterle. Il terzo episodio Sonata,
rappresenta il momento del distacco e l’entrata di Yeo-jin
nell’età adulta, metaforicamente messa in scena
attraverso un viaggio espiativo insieme al padre ed alla struggente
sequenza che conclude il film della lezione di guida che il
padre impartisce alla figlia prima di essere arrestato e portato
lontano per un omicidio commesso. E’ la vita che nonostante
tutto procede il suo corso, tra miserie e felicità –
facce della stessa medaglia per il regista - che vanno a comporre
il mosaico delle nostre vite di tutti i giorni, in cui proprio
la quotidianità di gesti ed azioni rappresenta l’eccezionalità,
proprio come il cinema di Kim Ki-duk.
[fabio melandri]
|
|