La masseria
delle allodole si apre con una serie di flash che fotografano
una situazione realmente accaduta durante quello che è
stato definito “Il secolo breve”, a causa della
frenesia vorticosa di guerre e massacri che ne costellarono
la traiettoria.
Storie ricche di episodi e di memorie dolorose, che hanno
visto uomini bianchi diventare carnefici di altri bianchi,
sistematicamente, senza ragione alcuna se non un odio esaltato,
che mescolava elementi religiosi e nazionalismo esasperato.
Raccontando di tali episodi, nella memoria collettiva balza
subito agli occhi la questione razzista e antisemita, con
tutto il bagaglio di orrori e brutture che reca con se.
Ma sorprendentemente ci stiamo riferendo ad altro, ad un altro
genocidio per troppo tempo dimenticato, che vide un intero
popolo di quasi 1,5 milioni di persone, soppresso sistematicamente,
con una ferocia che fino ad allora non aveva avuto eguali
nella storia contemporanea.
A partire da uno dei romanzi più famosi scritti sull’argomento,
La masseria delle allodole, dell’italo-armena
Atonia Arslan, i fratelli Taviani costruiscono la loro ultima
opera, trattando con coraggio e senza remore un tema di cui
tanto ancora si deve - e si dovrebbe - venire a conoscere.
La confezione è un po’ antica, di maniera: per
tanti versi si intravedono le stesse difficoltà –
sempre che si possano definire tali – dello stare al
passo con i tempi di una modernità che viaggia sui
binari dei ritmi vertiginosi e dei testi destrutturati che
si sono avvertite nell’ultimo lavoro di Monicelli.
Ma nonostante questa endemica difficoltà, i Taviani
riescono a mettere in scena una pellicola interessante, mantenendo
fede alla loro peculiare cifra stilistica, dando al contempo
vita ad un corpo narrativo solido, che solo a tratti cede
alla tentazione del melò.
L’unico serio appunto è forse quella di non riuscire
a sfumare bene i grigi, in un contesto storico in cui il bianco
e il nero, il bene e il male, erano impossibili da scindere,
permeando entrambi in misura diversa ogni possibile azione
umana.
Il che semplifica forse eccessivamente gli intenti, facendo
risultare poco organico e ficcante l’architettura del
testo, ma non per questo ne inficia la pregnanza argomentativi
e la passione encomiabile infusa nel racconto di una storia
che descrive un periodo, non cedendo mai alla tentazione di
una memorialistica intimista.
La masseria delle allodole, dunque,
non strizza l’occhiolino al grande pubblico, a un certo
modo moderno (o modernista) di fare cinema, ma non per questo
non è un film necessario e profondo, girato più
con la passione del cuore che con il calcolo della mente.
[pietro salvatori]