La
Fandango e il suo patron, Domenico Procacci, puntano ancora,
coraggiosamente, sul cinema italiano, anche (e soprattutto)
se modestamente di nicchia.
Quella di Antonio Capuano è infatti una piccola produzione
che, se vogliamo, va a toccare argomenti e tematiche consuete
per un certo tipo di cinema nostrano. Quelle del disagio giovanile,
della depressione meridionale, dell’incontro/scontro tra
l’Italia del benessere e quella dell’indigenza,
su problematiche socio/assistenziali ampiamente già trattate
sul grande schermo.
E così ritroviamo il piccolo Mario - un sorprendente
Marco Greco - , bambino “difficile”, trascinato
al di fuori della periferia napoletana e dato in affidamento
a una coppia di quarantenni della borghesia colta e agiata,
apparentemente soddisfatti da una routine poco problematica.
L’impatto del ragazzino con la quotidianità dei
due genitori affidatari – interpretati da Valeria Golino
e Andrea Renzi – genererà una spirale di affanni,
disagi e preoccupazioni che investiranno tutti e tre i protagonisti.
Il castello narrativo s’innesterà su questa tensione
tra cosa sia “giusto fare”, a rigor di logica, a
rigor di legge, e quella passionalità e densità
di affetti e sentimenti che scaturiscono da un vissuto così
profondo e articolato.
Capuano è reduce da Luna rossa,
presentato in concorso nel 2001 a Venezia, dove l’abilità
nel dettagliare caratteri e personalità mancava totalmente,
o, se c’era, non ce ne eravamo proprio accorti. Stupisce,
così, vederlo districarsi con una certa delicatezza su
tematiche che di una mano leggera ma decisa fanno necessità,
pena la totale non credibilità dell’azione filmica.
Il dettaglio, a partire dalla stesura dello script, è
curato attentamente e scrupolosamente, dando la possibilità
di una lettura dell’immagine, e dei personaggi che in
essa si muovono, precisa e ficcante.
Distaccandosi dal particolare, e cercando di delineare un quadro
più a tutto tondo del film, non si può però
far a meno di notare una certa approssimazione nello scioglimento
degli snodi narrativi, una certa frettolosità nell’indicare
il “senso”, lo scopo di azioni e sequenze.
Si cerca di forzare narrativamente il giudizio complessivo della
pellicola, forzatura che viene comunque ben bilanciata dalla
già accennata precisione nella delineare i singoli personaggi
e le singole dinamiche interne.
Il tutto inserito in una realizzazione che, per parole dell’autore,
è “frugale, disadorna” che tende in qualche
modo all’annullamento di un determinato stile registico.
“Niente belle inquadrature” – continua
il regista – “niente bella fotografia…Fondamentale
è cosa ho inquadrato, non come”. Sta tutta
qui l’analisi della messa in scena, del tutto funzionale
ad un finale altrettanto scarno, disadorno e disarmante.
Un film duro, sincero, seppur minato da una possibile accusa
di poca coerenza e poca coesione, che non può far a meno
di cadere nella sensazione del “già visto”.
Eppure lo affronta, se possibile, in modo “diverso”.
[pietro salvatori]
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