Sono
i particolari a fare la differenza. Cosa distingue La
Guerra dei Mondi, ennesima rivisitazione in celluloide
del romanzo di H.G. Wells stavolta ad opera dell’ex enfant
prodige di Hollywood Steven Spielberg, da un film giocattolone,
divertente sì ma presto dimenticabile come Indipendent
Day del teutonico Roland Emmerich?
I dettagli, gli inserti che Spielberg, immenso narratore ed
affabulatore di immagini, di tanto in tanto inserisce all’interno
di un tessuto narrativo noto, archetipico, ed assolutamente
inadeguato ed imperfetto quando vira sul piano privato della
narrazione, sul racconto di un padre che tenta a fatica di riconquistare
l’affetto e la stima dei suoi due figli. Inserti che impreziosiscono
e stampano nella memoria dello spettatore immagini glaciali
ed indimenticabili, capaci di raccontare più di mille
parole, a trasmettere sensazioni di panico e smarrimento più
di cento testimonianze dirette o artifici narrativi. Parliamo
di vestiti che fluttuano nell’aria e cadono lievi lievi
come piume dall’alto di un bosco sui nostri protagonisti
e che ci riportano con la mente e con il cuore nel bel mezzo
dei campi di concentramento nazisti; parliamo di un passaggio
a livello che si chiude nella notte, una notte illuminata dal
fuoco di un treno impazzito e senza controllo che sfreccia davanti
ai nostri occhi come la barca di Caronte piena di anime dannate
pronte a bruciare all’Inferno; parliamo di un fiume le
cui acque improvvisamente si animano sotto gli occhi della giovane
protagonista di cadaveri, prima uno, poi un secondo poi una
vera e propria invasione che non può riportarci alla
mente lo scorso Natale con il tremendo maremoto del sud est
asiatico.
Un film di fantascienza che ci parla della caducità della
vita umana, di quanto sia fragile l’equilibrio che ci
sorregge, di quanto sia facile per l’uomo, predatore per
eccellenza, scendere i gradini della catena alimentare e trasformarsi
in concime per la terra, come nella bella sequenza in cui di
spalle accompagniamo lo sguardo di Tom Cruise oltre la collina,
con quei colori accesi che sembrano presi direttamente da Via
col Vento ma generati non da incendi lontani come nel
capolavoro di Fleming ma con il sangue versato degli umani.
Un kolossal che si avvale dei più imponenti effetti speciali
mai realizzati sul grande schermo, ma che in fondo può
essere quasi considerato un film umanista, in cui le debolezze
ed i vizi emergono nei momenti più drammatici, soffocando
ma non uccidendo quelle virtù che sono poi la causa principale
della sopravvivenza dell’uomo in un ambiente fortemente
ostile ed irto di pericoli come quello in cui viviamo: la cooperazione,
la reciproca collaborazione, il bene comune sopra quello individuale.
Retorico? Forse, anzi probabile, ma Spielberg ha la moralità
e la leggerezza stilistica da non sbattere tutto ciò
in faccia allo spettatore preferendo giocare con le immagini,
i sottotesti, il non detto.
D'altro canto Spielberg, con altri mezzi e budget, non fa che
rimettere in scena quello che può essere considerato
il suo lato oscuro, la materializzazione delle paure umane più
profonde ed irrazionali, quelle tanto improvvise quanto incomprensibili
che di punto in bianco prendono forma nel morso di uno squalo
bianco (Lo squalo) o nella sagoma
luciferina di un TIR (Duel). [fabio
melandri]
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