Si è
passati dal “dai
la cera, togli la cera” al “togli il giubbotto,
metti il giubbotto”.
Questa la differenza sostanziale che passa tra il
The Karate Kid Per vincere domani (1984) e il suo remake
“The Karate Kid. La leggenda continua”
(2010). Da Ralph Macchio (rimasto poi prigioniero del suo
personaggio) a Jaden Smith (figlio di Will Smith visto accanto
al padre in La ricerca della felicità),
da un italio-americano ad un afro-americano, dalla Los Angeles
californiana, alla Pechino post olimpionica. Potere delle
co-produzioni evidentemente.
Se in The Karate Kid filmato
da John G. Avildsen (il papà di Rocky
e si vede tutto), il kung fu era uno sport ospitato in terra
americana, nella nuova versione è l'americano a trasferirsi
nel paese che diete i natali a tale disciplina, con il tentativo
di aumentare il peso specifico morale ed etico alla vicenda
narrata. “Il kung fu è ovunque; il kung fu è
nelle cose; il kung fu è nel come tratti le persone.”
Al posto del mitico maestro Miyagi (interpretato al tempo
da Noryuki "Pat" Morita che ricevette anche una
candidatura all'Oscar per l'interpretazione) troviamo un quanto
mai compassato e trattenuto, quasi irriconoscibile, Jackie
Chan. La chimica tra Jackie ed il giovane Jaden è uno
dei pochi motivi di interesse di un film che viaggia lungo
i consueti canali del già visto e del già vissuto.
Tutto
è ampiamente prevedibile, con snodi narrativi che si
realizzano con una puntualità disarmante che il regista
Harald Zwart (dall'interessante Un corpo
da reato al mediocre La pantera
rosa 2) non riesce a vitalizzare con invenzioni di
alcun tipo.
Il film si guarda, si digerisce con estrema facilità
ed alla fine rimane poco: la faccia dolente di un Jackie Chan
che lascia intravedere “potenzialità recitative”
tenute sino ad ora ben celate.
[fabio melandri]