Quattro
personaggi in cerca di una identità. Un prete anglicano,
un tenente francese, un tenore tedesco e la donna da lui amata,
una soprano. Tre trincee – una francese, una tedesca,
una scozzese – poste a pochi metri di distanza l’una
dall’altra, tanto da sentire i respiri, i rumori della
vita quotidiana dei rispettivi dirimpettai. Siamo nel 1914,
durante la Prima Guerra Mondiale, alla vigilia di Natale. Come
in una favola, come in un sogno, improvvisamente i soldati escono
dalle loro fosse, abbandonano i loro fucili per stringere la
mano al nemico...
Potrebbe sembrare l’utopica invenzione di qualche sceneggiatore
in vena di facile pacisifismo in tempi così cupi, eppure
è un piccolo fatto di cronaca, storico lo definiremmo
se fosse comparso in qualche riga dei nostri libri scolastici,
che accadde realmente sulla linea del fronte francese nell’inverno
del 1914.
Candidato francese ai prossimi Oscar, Joyeux
Noel prende spunto da un episodio realmente accaduto
e riportato nel libro di Yves Buffetaut, 'Batailles de Flandres
et d’Artois 1914-1918', riesumato dal regista Christian
Carion (Una rondine fa primavera).
In un passo del libro intitolato 'L’incredibile inverno
del 1914' si narra di episodi di fraternizzazione tra soldati
nemici, di un tenore tedesco applaudito dai soldati francesi,
di una partita a calcio, di scambi di lettere, di alberi di
Natale, di scambi di visite tra trincee. Elementi romanzati,
innestati e diluiti nella struttura narrativa di un film che
come un bambino, appare tanto sincero quanto sempliciotto.
Il primo Conflitto Mondiale è stata una guerra di trincea,
più di attesa e resistenza che non di attacchi e strategie;
una guerra in cui si guardava in faccia il nemico, si sentiva
il suo respiro, lo si poteva umanizzare e quindi in un certo
senso anche comprendere e fraternizzare con esso.
Joyeux Noel si sviluppa sulla linea
del fronte, ci immerge nelle luride e fredde trincee, in mezzo
a malattie, sporcizia, puntando il proprio obiettivo sulle facce,
sui pensieri, sulle emozioni dei soldati, più interessati
ai propri destini personali (la famiglia, il ritorno a casa)
che non ai destini del conflitto. Il regista punta molto, forse
in certi frangenti troppo ed in maniera assai meccanica, nell’umanizzare
i tre eserciti in lotta, ma è l’assunto necessario
ed indispensabile per poi “accettare e comprendere”
quanto accade in seguito.
La vigilia di Natale, un canto di Natale si alza dalla trincea
tedesca, un accompagnamento di cornamusa lo intona da quella
scozzese, un’armonica si aggiunge da quella francese.
Emotivamente è la scena più forte del film e quella
a più alto tasso di inverosimiglianza. Eppure tutto fila
liscio, perché vogliamo/dobbiamo credere che tutto questo
sia possibile, che le differenze tra gli uomini possano essere
superate e la musica è una potente asta per superare
ostacoli e barriere fisiche, psicologiche, ideologiche.
L’episodio avviene dopo circa quaranta minuti di proiezione
mentre il film ne dura un’ora e quaranta con episodi di
fratellanza che si accumulano l’uno sull’altro demolendo
quel principio di verosimiglianza costruito con sapienza ed
attenzione in tutta la prima parte dell’opera.
I personaggi sono costruiti in maniera schematica e semplicistica,
l’estetica del film è ricercata e sin troppo patinata,
ma per una volta il messaggio prevale su messa in scena e linguaggio:
se lo conosci il tuo nemico, non lo uccidi. Una favola di Natale
fuori tempo massimo, che pone le sue fortune artistiche e commerciali
sulla capacità del pubblico di ritrovare un'innocenza
archetipica dentro se stessi. Cinici e disillusi si tengano
ben lontani da quest'opera. Per tutti gli altri... C'era una
volta tanto tempo fa... [fabio
melandri]
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