Jarhead
id.
Regia
Sam Mendes
Sceneggiatura
William Broyles Jr.
Fotografia
Roger Deakins
Montaggio
Walter Murch
Musica
Thomas Newman
Interpreti
Jake Gyllenhaal, Peter Sarsgaard, Chris Cooper, Jamie Foxx
Anno
2005
Durata

123'

Nazione
USA
Genere
guerra
Distribuzione
UIP

Jarhead, ovvero teste di barattolo. Per il loro cranio rasato e tondo sono chiamati così i soldati del corpo dei Marine, militari addestrati a non pensare, solo ad eseguire ordini corrisposti e non avere troppi sentimenti a gravare sul comando ricevuto. Jake Gyllenhaal è uno di loro. E’ Anthony Swofford, protagonista del film e scrittore del libro autobiografico del 2003 dal quale la pellicola è stata ispirata, rimembrando le operazioni belliche e la vita di campo nel periodo della Guerra del Golfo all’inizio degli anni 90, quando l’Iraq invase il Kuwait e gli Stati Uniti si mossero a difesa dei loro interessi petroliferi. Come lo stesso Mendes dichiara, “questo non è un film di guerra o sulla guerra, questo è un film di soldati” e dunque non prende posizione sulla legittimità o meno dello scontro a fuoco e sulla politica intercorsa (nonostante in alcune scene di dialogo tenda ineluttabilmente verso la considerazione d’inutilità di questa o comunque a mettere in evidenza la sua oggettiva assurdità, trovando nelle parole dei personaggi un pensiero coerente alla situazione).
Dopo l’acclamato American Beauty e il sottotono Era mio padre, il regista inglese (che avrà ancora a che fare nel 2006 con la guerra nell’annunciato Charlie Wilson’s War con Tom Hanks) si riaffaccia al cinema con un lavoro sicuramente diverso, più “caldo” e diretto. Il film non ha quasi mai flessioni o zone di vuoto, ma cambia spesso ritmo e riesce bene a miscelare riflessione, azione e realtà in diretta. In effetti, a tratti, Jarhead si trasforma in un quasi documentario su come gli ex militari vivevano la loro permanenza “senza lotta” nel deserto della zona araba. La guerra per loro è un miraggio, proprio come ombre scure proiettate nella polvere, dove il caldo soffoca la gola e i pensieri si sciolgono. Uccidere il tempo e il nemico sono gli obiettivi, ma il secondo non si scorge all’orizzonte. Ma nel momento tanto atteso, quasi come una liberazione, in cui tutto sembra però acquistare valore e voltare da teoria a pratica, quando il nemico è sotto tiro e la morte è un videogame, il destino dice che è tutto da rimandare.
“Don’t worry, be happy” è il sottofondo musicale durante le scene al corso di addestramento, dove molti arrivano con dubbi, paure e una vita già corrosa. “Non aver paura, sii felice”. Certo. E se Mendes regala consciamente a Kubrick (l’inizio è un chiaro riferimento a Full Metal Jacket) e F.F. Coppola (i soldati al cineforum si esaltano per Apocalypse Now e la sua Cavalcata delle Valchirie) la sua stima sul cinema di guerra, ne prende subito rispettosamente le distanze andando a scavare sotto i confini della mente e della pelle cercando una dimensione propria e una direzione alternativa. Mendes è altrettanto abile, come dimostrò in American Beauty, a trattare argomenti difficili di carattere esistenziale con una buona dose d’ironia, smussando il sortilegio della tristezza a tutti i costi e provando a ridere anche in condizioni apparentemente ostili. Quando "Something in the Way", brano denso e fatiscente dei Nirvana si affaccia sul film, corre un brivido lungo la schiena. Gyllenhaal vomita sabbia e riflette ricordi allo specchio. Jarhead per assonanza sonora e verbale nella mia testa diventa subito Jar of flies, album acustico degli Alice in Chains: la conseguente trasmigrazione mi disegna in testa un periodo d’ideali giovanili adesso consumato, coevo alla Guerra del Golfo, che a molti di noi si dimostrò amico e aprì quesiti celesti. Ma non c’è tempo per guardarsi indietro, perlustrare la zona è il passo successivo. “Cosa c’è laggiù” chiede il Sergente Maggiore (Jamie Foxx), “Niente” risponde Swofford. Il film sprigiona un senso di vuoto globale, di aridità del vivere. Implode senza forza, come un impatto sordo, come se la morte si fosse gettata nel baratro che ci circonda. Vivere e morire hanno nell’assenza il loro comun divisore. Le scene durante la pioggia di petrolio ai pozzi petroliferi in fiamme sono scenograficamente ammalianti, sensuali. Quasi la visione di un inferno terreno, che invece di accompagnare lo scorrere dell’Ade sottoterra si accampa in superficie, nel deserto, nel calore e il fuoco di una lotta senza nemici.
Ma essere jarhead non è solo ottenere un (meritato) marchio a fuoco dell’USMC – United States Marine Corp sulla gamba, è qualcosa che ti segna altrove. Ti allontana forse per sempre da chi prima ti è stato accanto, ti allontana dalla tranquilla vita di paese, dai sorrisi, dai supermarket e dagli sconti famiglia, ti avvicina sempre più alla realtà, cruda e sincera, come un’amica senza remore, che prova a darti un lavoro, qualche amico, una compagna, ma non riuscirà più a garantirti quella felicità che forse avevi e nella quale credevi quando sei partito per il fronte. Se nel petto dovessimo ogni tanto sentire colpi di mortaio non badiamoci molto, perché probabilmente, la guerra, di qualsiasi tipo, è dentro di noi. [alessandro antonelli]

| trailer originale |