Jarhead,
ovvero teste di barattolo. Per il loro cranio rasato e tondo
sono chiamati così i soldati del corpo dei Marine,
militari addestrati a non pensare, solo ad eseguire ordini
corrisposti e non avere troppi sentimenti a gravare sul comando
ricevuto. Jake Gyllenhaal è uno di loro. E’ Anthony
Swofford, protagonista del film e scrittore del libro autobiografico
del 2003 dal quale la pellicola è stata ispirata, rimembrando
le operazioni belliche e la vita di campo nel periodo della
Guerra del Golfo all’inizio degli anni 90, quando l’Iraq
invase il Kuwait e gli Stati Uniti si mossero a difesa dei
loro interessi petroliferi. Come lo stesso Mendes dichiara,
“questo non è un film di guerra o sulla guerra,
questo è un film di soldati” e dunque non prende
posizione sulla legittimità o meno dello scontro a
fuoco e sulla politica intercorsa (nonostante in alcune scene
di dialogo tenda ineluttabilmente verso la considerazione
d’inutilità di questa o comunque a mettere in
evidenza la sua oggettiva assurdità, trovando nelle
parole dei personaggi un pensiero coerente alla situazione).
Dopo l’acclamato American Beauty
e il sottotono Era mio padre,
il regista inglese (che avrà ancora a che fare nel
2006 con la guerra nell’annunciato Charlie
Wilson’s War con Tom Hanks) si riaffaccia al
cinema con un lavoro sicuramente diverso, più “caldo”
e diretto. Il film non ha quasi mai flessioni o zone di vuoto,
ma cambia spesso ritmo e riesce bene a miscelare riflessione,
azione e realtà in diretta. In effetti, a tratti, Jarhead
si trasforma in un quasi documentario su come gli ex militari
vivevano la loro permanenza “senza lotta” nel
deserto della zona araba. La guerra per loro è un miraggio,
proprio come ombre scure proiettate nella polvere, dove il
caldo soffoca la gola e i pensieri si sciolgono. Uccidere
il tempo e il nemico sono gli obiettivi, ma il secondo non
si scorge all’orizzonte. Ma nel momento tanto atteso,
quasi come una liberazione, in cui tutto sembra però
acquistare valore e voltare da teoria a pratica, quando il
nemico è sotto tiro e la morte è un videogame,
il destino dice che è tutto da rimandare.
“Don’t worry, be happy” è il sottofondo
musicale durante le scene al corso di addestramento, dove
molti arrivano con dubbi, paure e una vita già corrosa.
“Non aver paura, sii felice”. Certo. E se Mendes
regala consciamente a Kubrick (l’inizio è un
chiaro riferimento a Full Metal Jacket)
e F.F. Coppola (i soldati al cineforum si esaltano per Apocalypse
Now e la sua Cavalcata delle Valchirie) la sua stima
sul cinema di guerra, ne prende subito rispettosamente le
distanze andando a scavare sotto i confini della mente e della
pelle cercando una dimensione propria e una direzione alternativa.
Mendes è altrettanto abile, come dimostrò in
American Beauty, a trattare argomenti
difficili di carattere esistenziale con una buona dose d’ironia,
smussando il sortilegio della tristezza a tutti i costi e
provando a ridere anche in condizioni apparentemente ostili.
Quando "Something in the Way", brano denso e fatiscente
dei Nirvana si affaccia sul film, corre un brivido lungo la
schiena. Gyllenhaal vomita sabbia e riflette ricordi allo
specchio. Jarhead per assonanza
sonora e verbale nella mia testa diventa subito Jar of flies,
album acustico degli Alice in Chains: la conseguente trasmigrazione
mi disegna in testa un periodo d’ideali giovanili adesso
consumato, coevo alla Guerra del Golfo, che a molti di noi
si dimostrò amico e aprì quesiti celesti. Ma
non c’è tempo per guardarsi indietro, perlustrare
la zona è il passo successivo. “Cosa c’è
laggiù” chiede il Sergente Maggiore (Jamie Foxx),
“Niente” risponde Swofford. Il film sprigiona
un senso di vuoto globale, di aridità del vivere. Implode
senza forza, come un impatto sordo, come se la morte si fosse
gettata nel baratro che ci circonda. Vivere e morire hanno
nell’assenza il loro comun divisore. Le scene durante
la pioggia di petrolio ai pozzi petroliferi in fiamme sono
scenograficamente ammalianti, sensuali. Quasi la visione di
un inferno terreno, che invece di accompagnare lo scorrere
dell’Ade sottoterra si accampa in superficie, nel deserto,
nel calore e il fuoco di una lotta senza nemici.
Ma essere jarhead non è solo ottenere un (meritato)
marchio a fuoco dell’USMC – United States Marine
Corp sulla gamba, è qualcosa che ti segna altrove.
Ti allontana forse per sempre da chi prima ti è stato
accanto, ti allontana dalla tranquilla vita di paese, dai
sorrisi, dai supermarket e dagli sconti famiglia, ti avvicina
sempre più alla realtà, cruda e sincera, come
un’amica senza remore, che prova a darti un lavoro,
qualche amico, una compagna, ma non riuscirà più
a garantirti quella felicità che forse avevi e nella
quale credevi quando sei partito per il fronte. Se nel petto
dovessimo ogni tanto sentire colpi di mortaio non badiamoci
molto, perché probabilmente, la guerra, di qualsiasi
tipo, è dentro di noi. [alessandro
antonelli]
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