I biopic
sono un genere delicatissimo sul quale sono caduti più
di un regista titolato e talentuoso. Due nomi su tutti: Martin
Scorsese (The Aviator),
Michael Mann (Ali).
Ora ci prova un altro Grande del cinema americano, il vecchio
Clint Eastwood per raccontare un pezzo di storia americana,
o meglio ossessione, attraverso la controversa figura di J.
Edgar Hoover, colui che fondò e diresse per quasi cinquant'anni
l'FBI, il Federal Boureau of Investigantions.
Per farlo Eastwood sceglie la strada più tortuosa (un
continua avanti ed indietro nel tempo che impedisce alla storia
- sia del presente che del passato - di decollare) e meno
originale (una voce off onnipresente che lega i due piani
temporali spiegandoli ed interpretandoli lasciando poco spazio
alle immagini ed alla partecipazione dello spettatore).
Un Hoover ormai sulla
soglia dei 75 anni racconta la sua storia, per affermare una
verità diretta dopo le insistenti voci e pettegolezzi
che girano intorno al suo conto. Così ci catapultiamo
nell'America degli Anni Venti, quando scossa da numerosi attentati
dinamitardi ad opera della cospirazione rossa, il Presidente
Calvin Coolidge lo mise, giovanissimo, a capo del servizio
FBI. Inzialmente in numero di 600 agenti in forza, al termine
della sua gestione erano oltre 6.000. L'accademia nazionale
per l'addestramento degli agenti, l'immenso archivio per le
impronte digitali, l'utilizzo di scienziati e dei laboratori
scientifici per l'analisi delle prove rinvenute sulle scene
dei crimini, sono intuizioni/invenzioni di Hoover. Un'infanzia
difficile segnata dalla mancanza di una figura paterna e dal
raporto morboso con l'anziana madre segnerà il carattere
del giovane e solitario Edgar portandolo ad una pignoleria,
una spiccata inclinazione alla cospirazione che ne caratterizzeranno
l'intera esistenza; pubblica e privata.
Clint
Eastwood come un pittore del puntinismo costruisce il personaggio
Edgar Hoover attraverso piccole ed invisibili pennellate di
colori chiaroscurali, da cui emerge un personaggio fortemente
controverso, incline all'intrigo, alla perfezione formale
(la forma è sostanza), con una omossessualità
latente che il regista tratta con estrema ed apprezzata delicatezza
evitando il facile macchiettismo.
Così
un film che appare di primo acchito macchinoso, lento, acquista
potenza e spessore con il tempo, con una naturale decantazione
che lo spettatore dovrebbe aspettare prima di emettere giudizi
e considerazioni. Una pellicola non riuscitissima, ma il cui
spessore va ri-valutato a distanza di tempo. Rimane immediata
la buona impressione di un misurato Leonardo Di Caprio (temevamo
un The Aviator
bis, lo confesso), una ricostruzione d'ambiente precisa ed
efficace, una colonna sonora non memorabile ma funzionale
al racconto ad opera dello stesso regista. [fabio
melandri]