Intrepido
è stato Gianni Amelio nell'avventurarsi in una commedia
surreale nel suo protagonista e neorealista nell'ambientazione.
Antonio
Pane è un 47enne in una Milano uggiosa, grigia, assai
meno da bere ma assai più verosimile. Lo si potrebbe
definire un precario, in quanto ha un lavoro, o meglio, ha più
lavori, o ancora ha una immensità di lavori che possono
durare da poche ore fino ad un paio di giorni.
Sì perchè Antonio Pane guida i tram, fa il pupazzo
nei centri commerciali, lavora in un cantiere, fa il bibliotecario,
consegna pizze e via discorrendo. Ex calzolaio, ora il suo mestiere
è quella del rimpiazzo. Sostituisce tutti in tutto all'occorrenza.
E sempre con il sorriso sulle labbra perchè per la sua
filosofia di vita è: meglio comunque avere tante piccole
occasioni di lavoro piuttosto che non averne per nulla ed ingrigirsi
a casa nella speranza di vincere un concorso che comunque vinceranno
i soliti noti. Fin qui, con una certa dose di benevolenza, l'impianto
del film funziona grazie ad un misurato Albanese, fin troppo
Candido o chapliniano come molti l'hanno accostato (non esageriamo)
per essere pienamente credibile.
Allora cosa non funziona nella nuova pellicola di Gianni Amelio,
presentata in Concorso alla 70esima Mostra Internazionale d'Arte
Cinematografica di Venezia dove è stata accolta con qualche
fischio alla proiezione stampa ed applausi in Sala Grande alla
proiezione ufficiale (dove in verità fischi se ne sentono
pochissimi da sempre).
Non funziona l'interazione di Antonio Pane con il mondo che
lo circonda, a partire dalla ragazza incontrata durante un concorso
(per la prima volta sullo schermo una Livia Rossi per nulla
convincente) passando per il figlio sassofonista (un acerbo
Gabriele Rendina) per finire con l'ex moglie che fa una comparsata
nell'effige di Sandra Ceccarelli. Il problema, oltre a quello
recitativo da parte dei due giovani protagonisti, è di
sceneggiatura. Mal costruiti e sviluppati, la sceneggiatura
tende a rimanere sempre sul vago, accennando ma mai approfondendo,
quasi che gli sceneggiatori (lo stesso Amelio e Davide Lantieri)
avessero volutamente costruito un'opera aperta in cui però
lo spettatore non riesce a identificarsi e quindi completarla.
Il grande problema del cinema italiano (che si evidenzia in
maniera netta in occasione di festival cinematografici con opere
provenienti da tutto il mondo) è la mancanza di sceneggiatori
capaci di costruire storie interessanti, personaggi coerenti
con dialoghi verosimili. Sarebbe ora che i registi pensassero
solo a fare i registi (Amelio in questo è bravo e nella
non riuscita del film, la sua mano si sente), gli sceneggiatori
gli sceneggiatori, gli attori gli attori e così via.
Questa è la via per la rinascita del cinema italiano.
L'intrepido soffre
invece di questa cronica malattia prettamente italica.
[fabio
melandri] |