Cosa
succede se nel mezzo del cammin della tua vita ti ritrovi degradato
alle dipendenze di un ragazzo che ha la metà dei tuoi anni
e nessun tipo di esperienza? E se tua moglie rimane inaspettatamente
in cinta? E se ti tocca accendere un secondo mutuo per pagare la retta
universitaria della tua primogenita diciottenne? E questa instaura
un’affettuosa amicizia del tuo capo-ragazzino? Se il tuo giovane
boss si auto-invita a casa tua per troppa solitudine? Cosa succede?
Sai dirmi cosa può succedere?
Gli effetti della globalizzazione subiti da un punto di vista familiare.
Una globalizzazione che attraverso la parola magica “sinergia”
riesce a mischiare il baseball con i cellulari, il football con i
computer, l’hockey con i korn-flakes, che “lascia andare”
anziché “licenziare”. Una vuota e spersonalizzante
ricerca del successo del raggiungimento dell’obiettivo finanziario,
dello sfruttamento del trend economico positivo, dell’acquisizione
societaria a livello internazionale che ci riporta indietro sino agli
Anni Ottanta, quelli degli Yuppies ci viene qui riproposta all’interno
di una struttura narrativa da commedia agrodolce, capace di mescolare
con sapienza i momenti di maggior impatto emotivo con calibrati registri
comici. Una commedia dai dialoghi spigliati, a tratti spontaneamente
commuovente diretta da quel Paul Weitz che aveva già dato prova
di leggerezza nel racconto ed interesse nei meccanismi che legano
gli uomini tra loro all’interno di quella sovrastruttura culturale
denominata famiglia in About a Boy e
American Pie. Con In good company conferma
il suo indubbio talento nella descrizione dei comportamenti umani
e nella personale convinzione che l’uomo pur essendo un’isola
ha bisogno di essere immerso in un arcipelago fatto di ponti relazionali
e passaggi obbligati per indirizzare la propria vita verso porti scuri
al riparo dalle tempeste.
Avvalendosi di un perfetto cast capitanato da un redivivo Dennis Quaid,
una sempre bella ed impertinente nella sua eterea adolescenza Scarlett
Johansson e la rivelazione Topher Grace capace di rendere con straziante
partecipazione la dolente solitudine del personaggio, In
good company può essere considerata una sorta di versione
americana dell’italico Volevo solo dormirle addosso, con tutti
i pregi (molti) ed i difetti (pochi e trascurabili) che caratterizzano
e distinguono il cinema americano da quello italiano. Vedere per credere.
[fabio melandri]