Anna
Heymes, soffre di terribili allucinazioni e di continue crisi
di amnesia che la portano a non riconoscere il volto del marito
e dimenticare intere sequenze della loro vita in comune. Contemporaneamente
il detective di polizia Paul Nerteaux, riceve l’incarico
di indagare sulla morte di tre donne turche che lavoravano in
laboratori clandestini e i cui corpi sono stati atrocemente
mutilati. Per riuscire ad infiltrarsi tra la comunità
turca del quartiere, Nerteaux non ha altra scelta che rivolgersi
a Jean-Louis Schiffer, un ex collega, con la fama di poliziotto
implacabile.
Le due storie, così apparentemente incompatibili, lentamente
iniziano a mostrare diversi inquietanti punti in comune sino
a quando i destini di Anna e dei detective Paul e Jean-Louis
non finiranno per incrociarsi.
Tratto dall’omonimo romanzo di Jean-Christophe Grangé
(I Fiumi di Porpora) qui in veste
anche di sceneggiatore, L’impero
dei lupi - i lupi del titolo fa riferimento al gruppo
di criminali chiamati Lupi Grigi, fortemente politicizzati che
profetizzano il ritorno ad una Turchia ancestrale - parte in
maniera assai avvincente portando avanti due storie parallele
apparentemente indipendenti l’una dall’altra, seminando
indizi ed accumulando dettagli esaltati da un’atmosfera
horror e un’iconografia che trasforma Parigi, città
dell’amore, in una città dannata, in una Sin
City fredda, piovosa e maleodorante grazie alla bella
fotografia dagli intensi toni bluastri di Michel Abramowicz.
E se per almeno un’ora e mezzo la tensione è tenuta
alta e l’interesse vivo grazie a sottotrame che si aprono
di continuo, a metà il film inizia a perdere colpi, a
percorrere vie già note e straviste a imboccare i sentieri
dell’anonimo action-movie.
Incentrato sull’interpretazione di un mefistofelico Jean
Reno e sugli sconosciuti Arly Jover, Jocelyn Quivrin, si avvale
della partecipazione della nostra Laura Morante nel ruolo della
psicologa Mathilde, alleata e ‘coscienza’ della
protagonista Anna, il che suona strano mettendocisi un po’
ad abituarsi all’idea. Se quindi da una parte il film
merita attenzione per i temi sollevati – lo sfruttamento
dell’immigrazione clandestina da parte di organizzazioni
malavitose – dall’altra non esce dai canoni di un
prodotto ben servito e confezionato, ma incapace di arricchire
in alcun modo il nostro bagaglio immaginifico e con una struttura
narrativa incapace di mantenere nella seconda parte le grandi
attese suscitate nella prima parte. [fabio
melandri]
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