Il vento
che accarezza l’erba
è un film che parla degli irlandesi adottando il punto
di vista degli irlandesi stessi. E’ un film, dunque,
sullo Sinn Fein: ovvero sul partito che lottava per la Repubblica
d’Irlanda, per l’affrancarsi dalla corona di Sua
Maestà, ma anche, così come letteralmente si
traducono i termini gaelici, su ‘noi stessi’,
su quella eterna lotta contro l’oppressore che caratterizza,
marxianamente, per Loach tutta l’umanità fotografabile
e, dunque, tutta la sua cinematografia.
Scordatevi carezze sull’erba, però. Nell’originale,
il titolo vuole che il vento non accarezzi i verdi prati dell’isola,
ma che ne ‘scuota il frumento’. ‘The wind
that shake the barley’ è infatti la vera e propria
onomatopea, il paradigma stesso del lavoro di Loach.
Un vento che smuove la quotidianità tranquilla e placida
delle campagne irlandesi, una risposta, ora e subito, alle
angherie dell’esercito inglese sulla semplice popolazione
civile.
Se Neil Jordan partiva da una locandina da presa della Bastiglia
nel trattare il personaggio di spicco di quell’epopea
nel suo Michael Collins datato
1996, Loach parte da un villaggio qualsiasi, dove si muove
un gruppetto qualunque di giovani patrioti.
La scena iniziale è da antologia. Loach riesce a inquadrare,
in una sola, elementare, sequenza, tutto quel che intende
raccontare, la cifra etica ed estetica del film. E dunque
la violenza dell’invasore, la rassegnazione e l’orgoglio
dell’invaso, il dramma, l’appartenenza, la voglia
di riscatto e il tormento interno di Damien, giovane protagonista,
emergono da subito con forza e lucidità.
Peccato, un vero peccato che qui il film finisca, muoia, si
adagi per una buona metà sullo slancio iniziale, perdendo
del tutto la bussola nella coda, la cui retorica del patetismo,
del ‘perché mi hai costretto ad ucciderti’,
dilaga, alimentata dal sottotesto tipicamente ‘alla
Loach’ della resistenza ‘senza se e senza ma’
contrapposta alla logica del compromesso.
La dinamica dell’indipendentismo, della rivoluzione
che scorre sottotraccia nelle vene del popolo, si accompagna
a quella che ruota intorno a due fratelli Damien (Cillian
Murphy) e Teddy (Padraic Delaney), dualismo che si rispecchia
nella struttura del film: una prima parte in comunione d’intenti,
di identica lotta e di sentite passioni, e una seconda in
cui Teddy sceglierà il compromesso di un’indipendenza
sotto la potestà della corona, mentre Damien continuerà
nella lotta repubblicana.
Mentre nella prima metà il film si adagia sulla virulenza
delle prime battute, aprendo a una fase di sequenze descrittive
della guerriglia armata, degli attentati e delle devastazioni,
che risultano sorrette da quello slancio iniziale che bastava,
da solo, a giustificare un certo, prevedibile, andamento,
magari, come nel caso del film, ben fotografando splendide
locations, la seconda parte cede di schianto alla retorica
classista, tipica di Loach.
Il punto di frattura non è, come nel resto degli snodi
narrativi, inserito in un climax narrativo. Bensì si
dipana in una verbosa scena di dibattito politico, per nulla
sentita e difficilmente comprensibile nelle sue sfumature.
La rottura è quindi, a livello di senso, netta. E Loach
lavora drasticamente d’ellisse, “sintetizzando”
un’evoluzione degli eventi che è ingiustificatamente
accelerata e che fa perdere il quid dell’azione, il
fulcro che muove i personaggi.
Ci ritroviamo così un Damien improvvisamente su posizioni
social-rivoluzionarie – “espropriamo la terra
dei ricchi londinesi”, recita un suo volantino –
un Teddy repentinamente asservito ad un potere che, almeno
in parte, avversava fino a poco prima. Ma soprattutto davanti
ad un finale (e chi non vuole perdersene il gusto salti alla
fine del capoverso) poco comprensibile, nonché del
tutto prevedibile. La morte di un fratello causata dall’altro,
quasi non importa quale nella dinamica degli eventi, se nonché
a spegnersi, fisicamente ma non moralmente, è, alla
maniera di Loach, il più debole, quello che alle spalle
non ha l’istituzione, ma che al contrario l’avversa.
Un film che subisce troppo, ironia della sorte, la mano pesante,
i (calcati) tratti caratteristici del suo autore, finendo,
dopo un ottimo avvio e una navigazione a vista, per venirne
soffocato.
[pietro salvatori]