Il grande match
La Gran Final
Regia
Gerardo Olivares
Sceneggiatura
Chema Rodriguez
Ideazione
Gerardo Olivares
Montaggio
Rori Sainz De Rozas
Montaggio sonoro
Juan Ferro
Missaggio sonoro
Alfonso Raposo
Musica
Martin Meissonier
Produzione
Wanda Films,
Greenlight Media
Interpreti
Ahmed Alansar, Mahamadou Alzouma, Esentai Samer Khan,
Khoshibai Edil Khan, Wirapitang Kaapor, Kinchiran Kaapor
Anno
2006
Genere
commedia
Nazione
Spagna, Germania
Durata
80'
Distribuzione
Mikado
Uscita
20-07-07

Estate 2002. Si disputa in Giappone/Corea la finale di coppa del mondo di calcio tra Brasile e Germania. Tutti la vogliono vedere ma nel villaggio globale anche assistere a una partita in tv sembra un privilegio per pochi. Nel deserto trovare un televisore, attaccarlo a un’antenna e collegarsi a una qualche fonte di elettricità per accenderlo sembra un’impresa più ardua che non per campioni come Ronaldo e Cafu vincere la partita. Il grande match è la storia di tre comunità che vivono isolate dal mondo e dalla civiltà occidentale. La loro civiltà è antica, millenaria e resiste alle lusinghe dell’aria serena dell’ovest ma impiegheranno tutte le loro risorse per non perdersi un evento sportivo così atteso. Sono gli indios della giungla amazzonica, mongoli delle catene montuose dell’Altai e i tuareg del Sahara. Non c’è filtro tra ciò che viene raccontato e come viene raccontato. Pur non trattandosi di un documentario i protagonisti sono se stessi, con una trama vera e propria che obbedisce alle regole di sceneggiatura ben articolate. Le storie sono divertenti, ironiche e commoventi. E la finale dei campionati del mondo diventa poco più che un pretesto per raccontare con sguardo onesto e semplice la vita di questi nomadi della terra. Il regista li segue, li pedina e li muove nel loro ambiente e registra le reazioni davanti a un’ipotesi di realtà che sia la più lontana e distante dalle loro abitudini più quotidiane e rituali. Gli indios, i mongoli e i tuareg vivono fuori dal tempo calati in uno spazio che sposta di continuo i propri confini. Finché un evento dell’intrattenimento mondiale piomba come un cataclisma a rimettere in gioco i loro schemi e pregiudizi. Imprevidibilmente, al di là di ogni teoria antropologica di conservazione di usi, costumi e tradizioni, queste tre comunità rispondono con una capacità di adattamento sorprendente e stupefacente. Le tre storie si tengono insieme, pur non incontrandosi mai grazie a degli elementi in comune che rendono il film coeso e coinvolgente. Innanzitutto il grande match che dà il titolo al film, oggetto del desiderio dei tre gruppi e punto di convergenza delle fatiche e sforzi per seguirla in diretta satellitare. In secondo luogo le tre storie ruotano intorno a un personaggio isolato egli stesso all’interno di una comunità isolata rispetto al resto del mondo. Il muto è presente in maniera determinante negli episodi dei tuareg e dei mongoli e in quello degli indios. Non c’è un vero e proprio alienato tra gli indios, sono piuttosto tutti i compagni del protagonista a essere meno coinvolti nell’impresa. Il cacciatore indios ha un carisma e un potere d’attrazione irresistibile: corpo completamente tatuato, sempre in guerra con le donne, non cattura una scimmia da mesi e si ingegna in mille modi tra cavi, spine, generatori e parabole. Il grande e aristocratico Tuareg si rifiuta di comunicare con chiunque non sia Tuareg perché non è degno di avere a che fare con la nobile gente del deserto. Mentre il giovane mongolo soffre di una rara sindrome che lo ha rinchiuso in un mutismo inguaribile. Ed è con i suoi occhi e con i suoi commenti fuori campo dissacranti e compassionevoli che seguiamo le vicende della sua famiglia bizzarra e altruista. Il ragazzo sembra uscito da un film di Kusturika e durante la partita tra i suoi parenti e soldati dell’esercito cinese, la sua partecipazione in porta non può non ricordare il primo Johnny Depp dall’aria stralunata. Girato con mano ferma e professionale da Olivares, una vita dedicata ai documentari antropologici in giro per il mondo, Il grande Match trascina e appassiona lo spettatore per l’intera durata del film. Ogni tanto si abbandona a qualche immagine da cartolina, qualche tramonto fine a se stesso, con una musica enfatica un po’ grossolana che fa tanto esotico. Ma non è mai ricattatorio, rimane un osservatore discreto e indipendente dalla materia che tratta. Non si pone come film di denuncia né tantomeno come critica del sistema di vita occidentale. Le genti del deserto non subiscono una trasformazione, sono coerenti a se stesse senza tradire i propri principi. E’ una gioia vedere ogni tanto al cinema un’opera così spensierata e leggera su ambienti e personaggi così distanti da noi. [matteo cafiero]