Estate
2002. Si disputa in Giappone/Corea la finale di coppa del
mondo di calcio tra Brasile e Germania. Tutti la vogliono
vedere ma nel villaggio globale anche assistere a una partita
in tv sembra un privilegio per pochi. Nel deserto trovare
un televisore, attaccarlo a un’antenna e collegarsi
a una qualche fonte di elettricità per accenderlo sembra
un’impresa più ardua che non per campioni come
Ronaldo e Cafu vincere la partita. Il grande match è
la storia di tre comunità che vivono isolate dal mondo
e dalla civiltà occidentale. La loro civiltà
è antica, millenaria e resiste alle lusinghe dell’aria
serena dell’ovest ma impiegheranno tutte le loro risorse
per non perdersi un evento sportivo così atteso. Sono
gli indios della giungla amazzonica, mongoli delle catene
montuose dell’Altai e i tuareg del Sahara. Non c’è
filtro tra ciò che viene raccontato e come viene raccontato.
Pur non trattandosi di un documentario i protagonisti sono
se stessi, con una trama vera e propria che obbedisce alle
regole di sceneggiatura ben articolate. Le storie sono divertenti,
ironiche e commoventi. E la finale dei campionati del mondo
diventa poco più che un pretesto per raccontare con
sguardo onesto e semplice la vita di questi nomadi della terra.
Il regista li segue, li pedina e li muove nel loro ambiente
e registra le reazioni davanti a un’ipotesi di realtà
che sia la più lontana e distante dalle loro abitudini
più quotidiane e rituali. Gli indios, i mongoli e i
tuareg vivono fuori dal tempo calati in uno spazio che sposta
di continuo i propri confini. Finché un evento dell’intrattenimento
mondiale piomba come un cataclisma a rimettere in gioco i
loro schemi e pregiudizi. Imprevidibilmente, al di là
di ogni teoria antropologica di conservazione di usi, costumi
e tradizioni, queste tre comunità rispondono con una
capacità di adattamento sorprendente e stupefacente.
Le tre storie si tengono insieme, pur non incontrandosi mai
grazie a degli elementi in comune che rendono il film coeso
e coinvolgente. Innanzitutto il grande match che dà
il titolo al film, oggetto del desiderio dei tre gruppi e
punto di convergenza delle fatiche e sforzi per seguirla in
diretta satellitare. In secondo luogo le tre storie ruotano
intorno a un personaggio isolato egli stesso all’interno
di una comunità isolata rispetto al resto del mondo.
Il muto è presente in maniera determinante negli episodi
dei tuareg e dei mongoli e in quello degli indios. Non c’è
un vero e proprio alienato tra gli indios, sono piuttosto
tutti i compagni del protagonista a essere meno coinvolti
nell’impresa. Il cacciatore indios ha un carisma e un
potere d’attrazione irresistibile: corpo completamente
tatuato, sempre in guerra con le donne, non cattura una scimmia
da mesi e si ingegna in mille modi tra cavi, spine, generatori
e parabole. Il grande e aristocratico Tuareg si rifiuta di
comunicare con chiunque non sia Tuareg perché non è
degno di avere a che fare con la nobile gente del deserto.
Mentre il giovane mongolo soffre di una rara sindrome che
lo ha rinchiuso in un mutismo inguaribile. Ed è con
i suoi occhi e con i suoi commenti fuori campo dissacranti
e compassionevoli che seguiamo le vicende della sua famiglia
bizzarra e altruista. Il ragazzo sembra uscito da un film
di Kusturika e durante la partita tra i suoi parenti e soldati
dell’esercito cinese, la sua partecipazione in porta
non può non ricordare il primo Johnny Depp dall’aria
stralunata. Girato con mano ferma e professionale da Olivares,
una vita dedicata ai documentari antropologici in giro per
il mondo, Il grande Match trascina e appassiona lo spettatore
per l’intera durata del film. Ogni tanto si abbandona
a qualche immagine da cartolina, qualche tramonto fine a se
stesso, con una musica enfatica un po’ grossolana che
fa tanto esotico. Ma non è mai ricattatorio, rimane
un osservatore discreto e indipendente dalla materia che tratta.
Non si pone come film di denuncia né tantomeno come
critica del sistema di vita occidentale. Le genti del deserto
non subiscono una trasformazione, sono coerenti a se stesse
senza tradire i propri principi. E’ una gioia vedere
ogni tanto al cinema un’opera così spensierata
e leggera su ambienti e personaggi così distanti da
noi. [matteo cafiero]