Ho voglia di te
id.
Regia
Luis Pietro
Sceneggiatura
Teresa Ciabatti,
Federico Moccia
Fotografia
Manfredo Archinto
Montaggio
Fabrizio Rossetti
Scenografia
Sarah Webster
Costumi
Sabina Amelia Maglia
Musica
Ivan Iusco
Produzione
Cattleya
Interpreti

Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Katy Saunders, Maria Chiara Augenti,
Ivan Bacchi, Filippo Nigro, Susy Laude, Giulia Elettra Gorietti, Claudio Bigagli

Anno
2006
Genere
commedia
Nazione
Italia
Durata
110'
Distribuzione
Warner Bros
Uscita
09-03-07

Dopo il fenomeno di Tre metri sopra il cielo (che, per moda e brevità, si accorcia nell’acronimo 3MSC) la Cattleya con il massiccio sostegno della Warner Bros Italia lancia il nuovo fenomeno, almeno così sperano, giovanile della stagione.
Ho voglia di te (che per moda e per brevità d’ora in poi sarà HVDT) è il seguito del film che ha consacrato Riccardo Scamarcio ad idolo delle ragazzine, svolgendosi due anni dopo il primo capitolo della saga, e racconta in parallelo le vite dei due ex-innamorati, Step (Scamarcio per l’appunto) e Babi, interpretata dalla splendida Katy Saunders. E come da miglior tradizione italica, seppur “il triangolo non l’avevo considerato”, irrompe nella vicenda un terzo incomodo, che si concretizza nella non trascurabile silhouette di Laura Chiatti.
La situazione innescherà una serie di eventi imprevedibili che non staremo di certo a svelarvi qui ora, per non togliervi il gusto della sorpresa (anche se la risoluzione dei singoli snodi narrativi e quella finale sono annunciatissime).
Il problema di fondo che relega HVDT nel grande mare dell’assoluta mediocrità cinematografica è che non si intravedono altri particolari motivi d’essere della pellicola se non quello del cavalcare l’onda del successo del suo predecessore e del costruire a tavolino un sequel cattura-incassi.
Intendiamoci, il film non è inguardabile, e al target a cui è diretto probabilmente piacerà.
Ma, al fianco di una regia un po’ sciatta, senza mai coraggio, che si adegua su uno stile tipicamente televisivo, si riscontrano una serie infinita di stereotipi, di dialoghi forzati e innaturali, di una sceneggiatura in bilico tra il tirare a campare e l’esigenza di costringere al provare una determinata emozione piuttosto che l’altra.
Gioia, dolore, amore e tristezza: tutto viene esasperato, ingigantito, naturalizzato nel calderone del sentimento a buon mercato.
Il tutto culmina nella imbarazzante autocitazione, ma forse sarebbe meglio chiamarla autocelebrazione, del lampione dei lucchetti su ponte Milvio.
Non si può non biasimare una pellicola costruita ad uso e consumo di un sex symbol, sfruttando la sua immagine data in pasto a buon mercato ad un pubblico che altro non aspetta. Ma non tanto per la dinamica in quanto tale. Piuttosto per l’assoluta noncuranza e approssimazione con cui si è architettato un contenitore privo di qualsiasi spessore tecnico e contenutistico.
Non ci si poteva aspettare altro, si direbbe. Noi ci aspettiamo sempre il meglio. [pietro salvatori]

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