Dopo il
fenomeno di Tre metri sopra il cielo
(che, per moda e brevità, si accorcia nell’acronimo
3MSC) la Cattleya con il massiccio sostegno della Warner Bros
Italia lancia il nuovo fenomeno, almeno così sperano,
giovanile della stagione.
Ho voglia di te (che per moda
e per brevità d’ora in poi sarà HVDT)
è il seguito del film che ha consacrato Riccardo Scamarcio
ad idolo delle ragazzine, svolgendosi due anni dopo il primo
capitolo della saga, e racconta in parallelo le vite dei due
ex-innamorati, Step (Scamarcio per l’appunto) e Babi,
interpretata dalla splendida Katy Saunders. E come da miglior
tradizione italica, seppur “il triangolo non l’avevo
considerato”, irrompe nella vicenda un terzo incomodo,
che si concretizza nella non trascurabile silhouette di Laura
Chiatti.
La situazione innescherà una serie di eventi imprevedibili
che non staremo di certo a svelarvi qui ora, per non togliervi
il gusto della sorpresa (anche se la risoluzione dei singoli
snodi narrativi e quella finale sono annunciatissime).
Il problema di fondo che relega HVDT nel grande mare dell’assoluta
mediocrità cinematografica è che non si intravedono
altri particolari motivi d’essere della pellicola se
non quello del cavalcare l’onda del successo del suo
predecessore e del costruire a tavolino un sequel cattura-incassi.
Intendiamoci, il film non è inguardabile, e al target
a cui è diretto probabilmente piacerà.
Ma, al fianco di una regia un po’ sciatta, senza mai
coraggio, che si adegua su uno stile tipicamente televisivo,
si riscontrano una serie infinita di stereotipi, di dialoghi
forzati e innaturali, di una sceneggiatura in bilico tra il
tirare a campare e l’esigenza di costringere al provare
una determinata emozione piuttosto che l’altra.
Gioia, dolore, amore e tristezza: tutto viene esasperato,
ingigantito, naturalizzato nel calderone del sentimento a
buon mercato.
Il tutto culmina nella imbarazzante autocitazione, ma forse
sarebbe meglio chiamarla autocelebrazione, del lampione dei
lucchetti su ponte Milvio.
Non si può non biasimare una pellicola costruita ad
uso e consumo di un sex symbol, sfruttando la sua immagine
data in pasto a buon mercato ad un pubblico che altro non
aspetta. Ma non tanto per la dinamica in quanto tale. Piuttosto
per l’assoluta noncuranza e approssimazione con cui
si è architettato un contenitore privo di qualsiasi
spessore tecnico e contenutistico.
Non ci si poteva aspettare altro, si direbbe. Noi ci aspettiamo
sempre il meglio. [pietro salvatori]
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