Coppia
che vince non si cambia. Tornano a lavorare assieme il premio
Oscar Matt Damon e il regista Paul Greengrass. E sono proprio
la credibilità e la fortuna dei film realizzati assieme
("The Bourne Supremacy"
(2004) e "The Bourne Ultimatum
- Il ritorno dello sciacallo"del 2007), a rendere
possibile l'ennesimo film di guerra dal titolo "Green
Zone".
La pellicola è una cronaca molto movimentata dei giorni
che precedettero l'inizio del conflitto in Medio Oriente:
siamo nel 2003. Roy Miller (Matt Damon) è a Baghdad,
insieme ad un team di ispettori dell'esercito, per cercare
e quindi disattivare le armi di distruzione di massa che gli
americani sono certi siano stoccate e nascoste nel deserto
iracheno. Eppure non c'è traccia di bombe, che l'intelligence
stia sbagliando tutto? Queste informazioni classificate provengono
da una fonte chiamata Magellano, che ha preso contatti con
il Governo americano e le cui indiscrezioni vengono avvalorate
da articoli del Wall Street Journal. Tutti elementi che fanno
pensare ad un filo conduttore: bisogna sempre verificare le
fonti. Perché l'onesto, coraggioso ma nel contempo
desideroso di disarmare le armi e salvare vite umane, soldato
Miller (un Damon relativamente mono-espressivo) intraprenderà
una vera e propria guerra personale contro il Governo. Ad
aiutarlo la Cia (“Non siamo sullo stesso fronte?”
- domanda Miller prima di dover corrompere un prigioniero
a Baghdad. Gli viene risposto di non essere ingenuo), un autoctono
spinto dalla consapevolezza di poter cambiare le cose nella
sua città e dalla tipica buona fede americana. E torniamo
al discorso iniziale: è credibile che un militare riesca
ad entrare in una prigione irachena senza rispettare le procedure?
Che possa rincorrere indisturbato il capo delle milizie irachene,
facendo entrare in azione le forze speciali per salvarlo e
tornare al lavoro il giorno dopo, come se niente fosse? Eppure,
se è Damon a farlo tutto sembra raggiungibile, persino
che un militare da solo riesca a svelare la verità
dietro la minaccia delle armi di distruzione di massa. La
validità della pellicola risiede nei temi trattati
e sul come sono trattati. I media, la politica e le minacce
dei terroristi mediorientali ne escono malissimo: diventa
sempre più palese il marcio che esiste dietro le scelte
geo-politiche americane, nella facilità che ha la stampa
di lasciarsi abbindolare senza “verificare le fonti”
e nella machiavellica strategia dei militari iracheni di tirare
(giustamente?) acqua al proprio mulino. Forse ha ragione il
giovane iracheno che funge da tramite tra Miller e il capo
dei miliziani, quando parla di amore per la propria patria.
Alla sceneggiatura articolata fa da contraltare una regia
coinvolgente, ritmata e basata su timbri di colore, che regala
più di una volta la sensazione di essere dentro la
scena. Ottima la scena dell'inseguimento notturno finale:
i respiri e la paura sono palpabili, grazie al perfetto utilizzo
della camera a spalla e alle riprese panoramiche.
[valentina venturi]