Una storia
può essere raccontata in molti modi, con diverse sfumature,
coloriture, spessore. Lo ha ben evidenziato lo scrittore Raymond
Queneau nel famoso testo Esercizi
di stile (Einaudi) in cui un episodio di vita
quotidiana, di sconcertante banalità, viene declinata
in novantanove variazioni sul tema, mettendo alla prova tutte
le figure retoriche dall'epico al drammatico, dal racconto
gotico alla lirica giapponese, dall'umoristico al monologo
e via discorrendo.
Ora il regista australiano Baz Luhrmann nella sua nuova pellicola
Il grande Gatsby,
tratto dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald, non fa altro
che raccontare nella forma del romanzo d'appendice, la medesima
storia già raccontata in Romeo
+ Giulietta in forma di tragedia e Moulin
Rouge in quella del musical: la storia di
un amore forte, unico, senza compromessi ma pieno di difficoltà,
rinunce, ostacoli apparentemente insormontabili e con un finale
tragicamente romantico.
E Lurhmann lo fa con le armi di cui è in possesso:
una messa in scena imponente, magniloquente, barocca, costruita
su una ricchezza di colori, costumi, suoni e musiche che creano
uno straniamento costruttivo rispetto alla verosimiglianza
temporale in cui si svolgono gli eventi.
Qui siamo tra le mille luci di New York, nella scintillante
città verticale che negli anni Venti dove contrabbandieri
e poliziotti, ballerine e politici, farabutti e miliardari
dall'origine poco cristallina convivono gli uni accanto agli
altri tra bische clandestine alcool al fiumi e promiscuità
sessuale sfrenata. Una vita bohemien che Lurhmann rende sullo
schermo traducendo la sensibilità dell'Era del Jazz
del romanzo originale nell'equivalente musicale del nostro
tempo, con una combinazione di hip-hop, jazz tradizionale
e altri stili musicali contemporanei che ne compongono la
potente e coinvolgente colonna musicale. Una scelta deflagrante
che il regista spiega così: “ Il romanzo di F.
Scott Fitzgerald è disseminato di riferimenti musicali
specifici all'ambientazione della storia nel 1922. Naturalmente
riconosciamo quella che Fitzgerald ha definito 'Era Jazz',
e questo è il periodo rappresentato sullo schermo,
ma noi – il suo pubblico – viviamo in un'era definita
'hip-hop' e desideriamo che i nostri spettatori percepiscano
l'impatto della musica moderna nello stesso modo in cui Fitzgerald
ha fatto per i suoi lettori ai tempo della pubblicazione del
suo romanzo.”
E se Lurhmann
dimostra di avere una propria visione di cinema grandeur che
rappresenta il suo segno identificativo, non poteva che essere
lui a mettere in scena la Visione che guida Gatsby nelle sue
azioni che ci vengono svelate a poco a poco dalla voce narrante
della vicenda, l'aspirante scrittore Nick Carraway. Il film
ha questa grande capacità di mostrarci i diversi personaggi
in gioco, le motivazioni che li guidano, le vicende di cui
sono protagonisti, lentamente, come un giocatore di poker
che spizzica le carte in mano: Gatsby per esempio (interpretato
da un Di Caprio in palla che sembra riprendere il personaggio
di Howard Hughes interpreto in
The Aviator asciugandolo degli eccessi che
avevano condito quel ruolo) viene raccontato inizialmente
dalle voci che girano sul suo conto, introdotto da dettagli
di ombre dietro finestre, mani che spostano tendaggi, un anello
come appendice del tutto, prima di apparire sullo schermo
nella sua interezza; Daisy la bionda ragazza che rinunciando
al brivido del grande amore impossibile, si è rifugiata
in un comodo e tranquillo matrimonio di opportunità,
è anch'essa introdotta da dettagli: una mano su un
divano, un anello con diamante che luccica in una sala piena
di luce e così via. Lurhmann ci fa spizzicare i diversi
personaggi mantenendo sempre vivo l'interesse nei loro confronti,
svelandoci come in un puzzle che si compone sotto i nostri
occhi il loro passato, i desideri e le passioni, le paure
e le insicurezze, tutto accomunato da una grande irresistibile
voglia di vivere che esplode in ogni angolo dello schermo.
Il
grande Gatsby non è un capolavoro alla
Moulin Rouge,
non è sorprendente come Romeo
+ Giulietta, ma dopo la delusione di Australia,
segna la resurrezione di un Autore capace di emozionare, entusiasmare
il suo pubblico, coinvolgendolo in una giostra di input sensoriali
atti a sedurlo e stravolgerlo al contempo, giocando con lui
attraverso una serie di citazioni cinematografiche che vanno
da Quarto Potere
(la casa di Gatsby assomiglia molto al castello prigione di
Charles Foster Kane) a Gioventù
bruciata (la corsa in macchina). Quindi lasciatevi
condurre per mano in questo Luna Park in Technicolor e lasciate
ogni inibizione voi che entrate in sala...
[fabio
melandri]