Guido
è uno scrittore di successo, con il suo ultimo libro
è entrato nella cinquina dei finalisti di un prestigioso
premio letterario.
Mentre è alle prese con gli impegni che la candidatura
del suo romanzo comporta, inizia a frequentare una piscina
e decide di imparare a nuotare, realizzando così un
desiderio che coltivava da tempo.
Lì incontra Giulia, una donna molto affascinante, soprattutto
quando è nel suo elemento: l’acqua.
Tra Guido e Giulia nasce una relazione che da subito però
rivela delle zone d’ombra. Perché Giulia nasconde
un segreto, e un passato misterioso.
Note
di regia: Giuseppe Piccioni
La principale difficoltà era quella di raccontare una
storia al centro della quale ci fosse la figura di uno scrittore.
In fase di scrittura e di preparazione del film mi sono documentato
riguardo all’ambiente del mondo letterario: ne ero incuriosito,
ma sapevo fin dall’inizio di non voler riproporre una
trasposizione cinematografica fedele; non mi interessava “riuscire”
in una sua ricostruzione sociologica corretta. Il mondo dell’editoria
è un ambiente che non conosco direttamente, immaginavo
che potesse avere delle analogie con l’ambiente cinematografico,
ma non volevo accomunarli magari banalizzandone le differenze.
Ho scelto allora di mantenere questa mia estraneità,
raccontando questo contesto liberamente, dal punto di vista
di chi non vi appartiene. Questa mi è sembrata la scelta
giusta e funzionale narrativamente, perché capace di
suggerire l’estraneità di Guido, il suo smarrimento
nei confronti di “un mondo in cui capita e che vive
a suo modo”.
Con Federica Pontremoli, già in fase di sceneggiatura,
abbiamo cercato di schivare le insidie legate alla scelta
di un personaggio come quello di Guido. Non mi interessava
tracciare il suo profilo, seguendo la strada di una caratterizzazione
fatta di stereotipi (l’intellettuale con il suo tipico
bagaglio di tic e manie): Guido è, al contrario, un
personaggio sfuggente, medio in tutte le sue manifestazioni,
senza apparenti problemi che lo assillino e lo definiscano;
medio nelle ambizioni, innocuo nella sua scrittura, o nei
suoi tentativi, anche se in essa traspare un desiderio di
vivere, di manifestarsi, di essere catturato da qualche tipo
di malia (la danza degli ombrelli, lo spettacolo di lap dance)
in modo da fuggire la sua inclinazione alla malinconia. Per
sottolineare il suo distacco ho raccontato un personaggio
che sembra non essere del tutto nelle cose che fa, nelle situazioni
in cui vive: la famiglia, la vita degli altri… Inoltre,
negli inevitabili momenti in cui si descrive l’attività
di Guido, lo vediamo chino sul computer in uno studio nel
suo appartamento, separato da una porta di vetro, che lo distanzia
dalla scena della vita familiare.
Per Valerio Mastandrea non era facilissimo affrontare un personaggio
del genere, senza appigli o caratterizzazioni eccessive, senza
uno stretto legame di causa ed effetto tra carattere e azione,
dove nessuno dei due elementi finisce per definirlo o consolidare
un’idea che possa renderlo afferrabile, lineare: credo
che Valerio sia riuscito a tratteggiare un carattere abbastanza
inedito, originale.
Guido vorrebbe non essere ambizioso ma lo è; pubblicamente
dichiara di non pensare al successo ma accetta, lamentandosene,
di fare tutto quello che gli viene proposto come necessario,
dichiara di non credere ai premi ma non al punto di disinteressarsi
di ciò che si sta muovendo intorno a lui; si lamenta
del suo editore e lo asseconda. Tutto questo senza sottolineature
o didascalie; la sua ambiguità non lo rende un personaggio
facilmente emblematico, né facilmente giudicabile nel
bene e nel male. Guido semplicemente non sceglie, così
come probabilmente non ha scelto la vita che conduce, la casa
in cui abita, forse nemmeno l’idea di fare quel mestiere:
la sua tragedia è quasi invisibile, silenziosa.
Non usa l’incontro con Giulia per trovare una soluzione
alla sua crisi creativa, si lascia coinvolgere fino anche
a perdere di vista tutto questo: lascia che le cose vadano
in una certa direzione, senza intervenire. Questa sua incapacità
viene sottolineata nella scena dove insieme al giovane Filippo
si mette ad analizzare il testo di una vecchia canzone di
Richard Anthony (J’entends siffler le train).
Quando cerca di cambiare le cose non lo vediamo agire (veniamo
a sapere che ha scritto una lettera alla figlia di Giulia
per favorire il loro incontro), interviene attraverso la scrittura
ma rimane a guardare la scena incorniciata nella vetrina di
un bar come un semplice spettatore degli eventi.
Nella definizione/non definizione del personaggio di Guido
vanno anche altre scelte fondamentali che riguardano strettamente
il racconto. Le relazioni tra Guido e Giulia e quella tra
Guido e Benedetta, sua moglie, non sono mai raccontate come
fenomeno di costume; il conflitto non viene mai dichiarato
dai personaggi. Non sappiamo nemmeno se Benedetta è
al corrente dell’esistenza di Giulia: nessuno rimprovera,
nessuno accusa, nessuno si giustifica.
Tutto questo per dire che l’oggetto del racconto non
è il tradimento o i conflitti tipici di una relazione.
Benedetta infatti rimprovera a Guido di non essere nel suo
mondo, nei suoi romanzi, come dire di non esistere.
Giulia al contrario è definita dal suo passato, dalla
sua tragedia personale. Anche in questo caso, attraverso i
costumi, il linguaggio, abbiamo provato a seguire una strada
non del tutto realistica. Con Valeria Golino abbiamo cercato
di raccontare la solitudine del personaggio attraverso il
suo sguardo e il tono della voce. Questi elementi, fin dall’inizio
danno l’idea di un vuoto incolmabile, che non è
nemmeno un dolore, perché il dolore non sarebbe sopportabile.
Giulia non gradisce i tentativi di Guido di riaccendere in
lei una qualche speranza, perché insieme alla speranza
rischierebbe di rinnovare un dolore che per lei, a quel punto
della sua vita, sarebbe fatale. È come se l’unica
possibilità per sopravvivere sia quella di essere in
una condizione di costante amnesia. Giulia non può
e non vuole ricordare com’erano la vita, gli affetti,
le passioni, l’amore. Il personaggio di Giulia non progredisce,
si accende per un momento di una speranza illusoria: l’amore
di Guido e con lui una nuova vita accanto a sua figlia. Ma
quando tutto si rivela per quello che è, non lotta,
non accusa, non recrimina. “Io non ho diritto a niente”.
Così questa scelta, quasi musicale nella partitura
del personaggio di Giulia, si ravviva improvvisamente con
accenti caldi, con trasalimenti: ne udiamo perfino i sospiri,
restiamo turbati quando il suo viso si illumina all’arrivo
di sua figlia Viola nel bar. Giulia però non ha rimpianti,
né accampa scuse, non si giustifica. Ha vissuto. Ha
commesso un tragico errore ma si è lasciata travolgere
da un sentimento. Soprattutto ha amato.
C’è qualcosa però che la avvicina a Guido.
Se Guido Montani è sempre sulla soglia della vita,
Giulia, al contrario, l’ha lasciata alle spalle, ma
non nell’oblio. Su di lei pesa come un macigno il ricordo
di ciò che ha fatto. Entrambi convivono in uno strano
territorio, che non è quello di tutti gli altri: è
un territorio dove non ci sono aspettative, dove non si cercano
soddisfazioni e non si temono delusioni perché il centro
della propria vita non è lì, si è disgregato.
Strane corrispondenze Guido e Giulia (chissà perché
due nomi che iniziano con la “G”), chissà
perché entrambi con una figlia e una famiglia (risolta
l’una, fallimentare l’altra, almeno nell’apparenza).
Guido è attratto da Giulia perché è una
fuga dalla sua malinconia: è la sua ombra, è
una realtà molto diversa da quella delle sue piccole
storie, bozzetti irrisolti di personaggi che gli somigliano,
o donne di pura apparenza, sia che siano capaci di sedurre
con la grazia o che lo facciano attraverso l’eros. Donne
che però si manifestano, ammaliano. Ecco questa vita
in penombra, segreta nel senso di nascosta, è la vita
di Guido Montani, scrittore di medio successo e di debole
vocazione, trascinato in quel mestiere dalle circostanze così
come dalla circostanze trascinato in altre avventure che non
lo coinvolgono mai appieno, se si esclude l’unico vero
rapporto in cui, senza rendersene conto, ha saputo dare qualcosa,
l’unico davvero importante per lui: quello con Costanza,
la figlia. Guido che guarda a distanza la sua stessa vita.
E poi una piscina, una piscina dove finalmente imparare gesti
concreti, stupidi ma vitali, respirare, coordinare i gesti,
fare 50 vasche. L’altro polo dell’attrazione,
luogo di un’esistenza scandita dalla ripetizione.
Volevo inoltre che emergessero anche altri aspetti dall’incontro
tra Giulia e Guido. La tragicità di Giulia nasce dal
suo essere stata sconfitta in quanto madre, di aver perso
la possibilità di crescere sua figlia. Giulia si aggrappa
a Guido nel tentativo disperato di risanare queste sue ferite
e di tornare a credere nella possibilità di una vita
normale.
Dall’incontro con Giulia, dalla sua disperazione di
madre, Guido apprende una maggior consapevolezza nei confronti
del suo ruolo di padre. È questa la vera ispirazione
che la donna regala a Guido.
Rispetto ai miei film precedenti il rapporto sentimentale
che coinvolge i due protagonisti si tinge di sfumature e significati
diversi. La storia d’amore tra Giulia e Guido, nel progredire
del racconto, travalica le regole dell’attrazione tra
uomo e donna: la loro unione si anima pian piano di un sentimento
molto vicino all’amicizia, che permette ai due di tendersi
vicendevolmente la mano.
Per questa
storia avevo bisogno di un’ambientazione metropolitana.
Le location esterne sono state girate prevalentemente a Roma
e il mio sforzo maggiore è stato quello di rendere
la città non troppo riconoscibile. Ho lavorato per
asciugare il più possibile gli ambienti, privandoli
di tutti quegli elementi tipici della “romanità”.
Ho evitato anche di estetizzare i paesaggi, non volevo che
la città stessa si trasformasse in personaggio. Per
i raccontini sui personaggi di fantasia inventati da Guido
e su altre situazioni non immediatamente riconducibili a una
realtà romana e laziale, mi è sembrato che certi
scorci di città e certi paesaggi e luoghi della Toscana
fossero lo sfondo ideale di alcune scene.
Per quanto
riguarda gli interni volevo che i miei personaggi si muovessero
in ambienti apparentemente quotidiani e ordinari, ma capaci
contemporaneamente di rivelare atmosfere inattese e stra-ordinarie.
Questi ambienti dovevano essere in grado di accogliere e nutrire
il mondo interiore di Guido, di ospitare le sue incursioni
visionarie, amalgamandole però il più possibile
con la realtà. Anche in questo caso ho lavorato molto
sulla sottrazione degli elementi, sulle sfumature, mi sono
concentrato sull’inserimento mirato di alcuni dettagli
negli arredi, e, grazie all’aiuto di Luca Bigazzi, su
alcune soluzioni di luce.
Per quanto
riguarda la piscina, che è l’ambiente narrativamente
più presente e significante, non era assolutamente
mia intenzione caricarlo di simbolismi, almeno in prima battuta
(qualcosa in quella direzione è diventato inevitabile,
anche se non del tutto voluto). Ho scelto di raccontare parte
della storia in una piscina semplicemente perché, negli
ultimi due anni mi è capitato di andarci spesso. La
piscina, o meglio il nuoto in piscina, non assomiglia per
niente a qualsiasi altro tipo di attività sportiva.
Nelle altre si mantiene, in qualche modo, un certo tipo di
relazione con il mondo circostante. Se vai a correre al parco
ti può capitare di rispondere al telefonino, se giochi
a tennis imprechi o polemizzi col tuo avversario. Invece,
in piscina il distacco, la sospensione dal mondo circostante,
mentre si nuota, è totale. Anche quando la piscina
è affollata si è profondamente soli, in un ambiente
che non è il nostro, quello abituale della vita di
tutti i giorni. C’è poi la ripetizione dei gesti,
dello sforzo, del respiro e un’apparente illusione di
leggerezza.
La piscina non è un semplice sfondo, è piuttosto
un ambiente che ho scelto di raccontare perché capace
di accogliere i miei personaggi in “fuga dalla vita”;
un luogo in grado di escluderli dal mondo circostante, regalando
loro la possibilità di riprendere fiato per un momento
dalle ansie della quotidianità e dalle delusioni del
passato.
La piscina non offre a Guido e Giulia una semplice via di
fuga, ma piuttosto una seconda possibilità, quella
di un nuovo coinvolgimento nel mondo, è questo l’aspetto
che mi premeva far emergere da questa storia. I due a partire
da questo ambiente affrontano insieme un percorso che gli
insegnerà a rivolgere uno nuovo sguardo sul mondo.
Riguardo
ai personaggi dei racconti, alla loro caratterizzazione, in
particolare riguardo alla scelta dei costumi e del trucco,
mi sono concesso delle libertà. Mi sono fatto guidare
dall’ispirazione, dalla fascinazione personale verso
alcuni personaggi cari alla mia memoria letteraria e cinematografica.
Per il racconto dell’uomo degli ombrelli non nascondo
di aver ripensato ai colori e alle atmosfere di Les Parapluies
De Cherbourg (non ho certo la pretesa di aver messo in scena
un omaggio “cinefilo” verso il film di Jacques
Demy, non era questo il mio intento): mi sono concesso semplicemente
di non trattenere un coinvolgimento affettivo, una suggestione
viva nella mia mente nei confronti di quel film.
“Ho
dedicato molto del mio tempo ai casting e al lavoro con i
reparti per la messa a punto dell’identità e
della fisicità dei personaggi non protagonisti. Non
voglio parlare di film corale a proposito di “Giulia
non esce la sera”, non sarebbe appropriato: è
vero però che c’è stato un gran lavoro
rivolto alla scelta e alla caratterizzazione dei personaggi
“secondari”, addirittura di certe figurazioni
speciali, come nella scena della “cena di lettura”
in cui viene invitato Guido. Sono tutti tasselli fondamentali
della storia, la loro presenza è strategica per la
piena comprensione e lo sviluppo dell’identità
dei due protagonisti.
Nello specifico ho scelto di tornare a lavorare con attori
con cui avevo già collaborato precedentemente, come
Paolo Sassanelli, un attore che stimo moltissimo e che con
generosità ha accettato di essere nel film con un piccolo
ma preziosissimo contributo, e poi Fabio Camilli, Sasa Vulicevic…
Mi ha fatto anche piacere dare inizio a nuove collaborazioni:
penso ai giovani attori emergenti, Chiara Nicola, Sara Tosti
e Jacopo Maria Bicocchi, Lidia Vitale e, ovviamente, al grande
contributo apportato al film da Sonia Bergamasco. Sono particolarmente
contento per aver potuto lavorare con Antonia Liskova che
si è preparata con grande serietà per la scena
della lap dance, una delle scene di cui sono maggiormente
soddisfatto. Antonia riesce a esprimersi fino al limite massimo
della sensualità e della seduzione e nello stesso tempo
ci rivela la fragilità e la vita interiore di un personaggio
descritto in pochi cenni.
In conclusione non posso che fare un ringraziamento speciale
a Piera Degli Esposti per aver accettato di fare questo film.
Piera lo impreziosisce ogni volta che appare, col colore della
sua voce, con la forza della sua presenza scenica, con la
sua vitalità. Piera mi ha anche colpito per il lavoro
che svolge nell’assimilazione di un testo, nell’importanza
che da alle parole, rispettandole. Il suo modo di mettersi
al servizio di un personaggio e di rendere necessari ogni
suo respiro, ogni sua parola, ogni suo gesto è unico.
Il film ha battezzato due esordi: quello di Domiziana Cardinali,
che recita la parte di Costanza, la figlia di Guido, e di
Jacopo Domenicucci nel ruolo di Filippo, il ragazzo della
figlia di Guido. Due ragazzi eccezionali, letteralmente scovati
per caso dalle mie collaboratrici dopo una lunga ricerca tra
gli studenti delle scuole di Roma. Nonostante fossero alla
loro prima esperienza recitativa in assoluto, Domiziana e
Jacopo hanno retto benissimo il confronto con il set e il
lavoro con attori professionisti; per me sono stati una vera
sorpresa, tanto che con il passare delle settimane i loro
personaggi hanno conquistato uno spazio sempre più
importante nella storia.
Valeria
Golino ha un’ineliminabile eleganza, una sensualità
difficile da appannare: calarla nei panni di una donna in
semilibertà, che vive tra il carcere e la piscina,
ha richiesto grande attenzione da parte sua. Bastava poco,
un vezzo nell’acconciatura, un suo portamento istintivo
a far riemergere subito la sua grande presenza scenica. Nello
stesso tempo non avevo voglia di mortificarla troppo nelle
gabbie del realismo, volevo comunque farne un’eroina
romantica, usare il suo fascino. Così Valeria ha cercato
uno sguardo, un tono della voce, evidenziando quel distacco
da tutto che finisce per attirare la curiosità di Guido.
La Golino mi sembra che oggi abbia raggiunto un grado di consapevolezza
artistica. Oggi più che mai è una grande risorsa
per tutto il nostro cinema. Con Valerio Mastandrea ho avuto
la sensazione che il suo percorso negli ultimi anni fosse
sempre più complesso, sfaccettato, sempre più
padrone e consapevole del suo essere attore. Ho dovuto solo
costringerlo in abiti che non amava anche se nello stesso
tempo, non volevo imbrigliarlo nelle vesti di un modello stereotipato
di scrittore. Mi servivano degli slittamenti, dei momenti
di non aderenza ai canoni.
Guido è uno scrittore insolito, non è un intellettuale,
non si veste ne parla come tale. In tutto ciò che non
fosse piena aderenza al copione, imprevisto, Valerio Mastandrea
era particolarmente disponibile. Entrambi non hanno fatto
che aggiungere qualcosa. Del lavoro di e con entrambi sono
molto soddisfatto.
Il lavoro
dei miei collaboratori è stato prezioso: quello di
Maria Rita Barbera per i costumi, sempre decisivo in una sfumatura,
in un particolare; quello di Giada Calabria, nel rendere astratta
l’esistenza concreta di Guido, nel saper mantenere questo
difficile equilibrio; quello di Luca Bigazzi con quel suo
modo di rendere nobile, importante qualsiasi immagine, qualsiasi
inquadratura. Inoltre il fondamentale contributo di Esmeralda
Calabria (montatrice) , di cui non avrei potuto fare a meno,
che ha saputo aiutarmi a cercare il cuore del film e che lo
ha seguito con passione e ostinazione, come fosse il suo.
Infine la musica dei Baustelle. Seguivo da tempo la loro avventura
artistica e li ho contattati. Erano già un gruppo cult
ma non così conosciuti come ora, soprattutto dopo aver
vinto il Premio Tenco. Con Francesco Bianconi abbiamo spesso
parlato di certe passioni comuni per un certo tipo di musica
leggera soprattutto francese come Gainsbourg, Ferré,
e tanti altri. Poi, insieme, abbiamo pensato che, tranne che
per la canzone dei titoli di coda, cantata appunto da Bianconi
e da Valeria Golino, sarebbe stato ancora più interessante
se i Baustelle avessero lavorato a una vera e propria colonna
sonora. Sono molto soddisfatto del risultato. Sono particolarmente
grato a Massimo di Rocco, l’organizzatore, che mi è
stato sempre vicino, soprattutto in tutti quei momenti in
cui c’erano dei problemi da risolvere. Ringrazio inoltre
il cuore “femminile” della troupe, le mie collaboratrici
Chiara Polizzi (al suo primo film da primo assistente alla
regia), Marta Bertini (al suo primo film in assoluto), Sophie
Chiarello (aiuto regista) e Paola Bonelli (segretaria di edizione
e depositaria di tutte le mie debolezze e incertezze) e poi
Marta e Viola (assistenti debuttanti assolute). Grazie anche
a chi si è prestato ad assecondare le mie richieste
sul set (in particolare acqua minerale e caffè decaffeinato).
Un’ultima parola su Lionello Cerri, compagno di viaggio
nei miei ultimi quattro film. A lui va un ringraziamento particolare.
Questo film non sarebbe potuto nascere senza di lui. Ringrazio
tutti, anche quelli che ho dimenticato di citare, per la capacità
di sopportazione nei miei confronti, per la loro pazienza,
per l’affetto che mi hanno dimostrato.