Elena
(Chiara Chiti), Michela (Desirèe Noferini), Alice (Nadir
Caselli), diciassette anni: belle, ricche e senza problemi.
Nate e cresciute in seno all’alta borghesia di una ricca
città di provincia italiana, sono le figlie delle tre
famiglie maggiormente in vista.
Estremamente fashion addicted, fissate con la dieta e con
l’aspetto fisico, spendono le loro giornate tra shopping
di lusso, ragazzi, feste in locali esclusivi e scuola.
Ma tutto per loro è già vecchio e noioso: genitori,
istituzioni, amici, nulla sembra avere un reale significato,
e vivono ogni cosa in modo superficiale, senza pensare alle
possibili conseguenze dei loro comportamenti. Abituate a ottenere
tutto e subito, si spingono a chiedere sempre di più.
Elena incarna la leader del gruppo: magnetica, intelligente,
sicura. Per lei l’amicizia rappresenta unicamente uno
strumento di potere con cui esercitare controllo sulle altre.
Ma un giorno Mario Landi (Filippo Nigro), il nuovo professore,
entra nella vita della ragazza, cercando di cambiare qualcosa,
e inconsapevolmente ne diventa un gioco…
“Con Un Gioco da Ragazze ho cercato di realizzare una
pellicola sul lato più oscuro dell’adolescenza
contemporanea. È una generazione che mi sembra sfuggire
al controllo: bombardati da impulsi di ogni tipo, dall’anarchia
di Internet e da un vuoto emotivo spesso assoluto, i diciassettenni
di oggi vivono in uno stato di anestesia emotiva, ribellandosi
forse inconsciamente ad adulti che hanno dato loro tanta libertà
e poco affetto. Ho tentato di mantenere un registro privo
di filtri, cercando per quanto possibile di non commentare
e non giudicare gli eventi che racconto.
La m.d.p. si nasconde, sparisce accanto alle protagoniste
come uno spettatore che silenziosamente assiste e partecipa
alla storia: in questo modo vorrei aiutare chi guarda a liberarsi
di ogni difesa, entrando direttamente nella vicenda raccontata,
senza pensare al media cinematografico che separa gli spettatori
dal film.
Ascoltando i fatti di cronaca recente sono rimasto sorpreso
da come oggi gli adolescenti siano in grado di sviluppare
intelligenze fredde, estremamente lucide ed efficaci sul piano
razionale, ma quasi sempre prive di un contraltare emotivo.
È come se l’intelligenza dei ragazzi crescesse
più di quella degli adulti, senza però lasciare
il dovuto spazio all’educazione emozionale. Il risultato
sono fatti di cronaca nei quali i giovani protagonisti stupiscono
soprattutto per il distacco con cui riescono a gestire la
violenza, facendoci supporre e sospettare che questa violenza
faccia parte del loro mondo in modo molto più radicato
di quello che crediamo.” Così Matteo Rovere commenta
il suo debutto al lungometraggio con Un gioco da ragazze,
presentato alla terza edizione del festival internazionale
del film di Roma, tra non poche polemiche e problemi di censura
per i temi scottanti trattati.
Tre allegre ragazze morte…dentro, che tra alcool, droghe,
sesso nei bagni di locali ed episodi di bullismo dipingono
a fosche tinte il ritratto di una gioventù bruciata.
Intento apprezzabile se non fosse per una struttura narrativa
che prevede come figura salvifica quella del solito professore
pieno di ideali, un po’ psicologo un po’ capro
espiatorio e vittima sacrificale su un altare sin troppo presto
e prevedibilmente apparecchiato. Se ben delineate sono le
figure delle quattro ragazze protagoniste – brave ed
in parte le giovani interpreti – è proprio il
contr’altare adulto a fare acqua in più punti,
mostrandosi l’anello debole del delicatissimo ingranaggio.
Le polemiche relative alla censura, ci sembrano pretestuose
e dimostrano ancora una volta l’inutilità della
commissione per il visto censura dominata da bigottismo e
un superficialismo pedagogico.
Il film racconta, bene o male, una realtà facilmente
riscontrabile da chi non tende a tenere gli occhi chiusi ed
il messaggio, nonostante un finale salvifico per le tre cattive
ragazze, non è affatto soggetto a controversie alcune.
La condanna è evidente, che poi nel film non venga
punito è coerente con quanto avviene nella realtà.
Dal punto di vista cinematografico invece, il prodotto risulta
alla lunga debole nei dialoghi ed in certe situazioni troppo
prevedibili, mentre una recitazione di maniera non permette
alla pellicola uno scarto qualitativo da tanta fiction televisiva
imperante nel piccolo schermo.
[fabio melandri]