La battaglia
di Iwo Jima resta negli annali delle operazioni belliche come
uno degli episodi più sanguinari del secondo conflitto
mondiale sul fronte giapponese.
Isola strategica per le linee di difese giapponesi, era considerato
un passo obbligato per lanciare l’offensiva finale sul
nemico con gli occhi a mandorla. E così fu.
Ma la sua conquista costò 35 giorni di battaglia, 20.000
morti giapponesi e 6821 americani, oltre 20000 feriti in battaglia.
Il quinto giorno di quella ecatombe fu scattata la famosa
fotografia dell’innalzamento della bandiera americana
su Iwo Jima, realizzata dal fotografo della Associated Press
Joe Rosenthal che diede origine ad una lunga fila di iconografie
e di un famoso monumento a Washington. Foto che in America
significava United We Stand per la vittoria finale, foto che
significava una vittoria storica sul nemico, che significava
propaganda in patria per la raccolta del denaro necessario
a proseguire lo sforzo bellico (14 miliardi di dollari, centesimo
più centesimo meno), significava l’atto eroico
di 5 Marines e di un Ufficiale Sanitario della Marina Americana.
Ma tra la realtà dei fatti ed il loro racconto spesso
c’è uno iato immenso, e la vera storia di quell’innalzamento
e dei suoi protagonisti è oggi il cuore di questa pellicola
di guerra diretta da Clint Eastwood, primo capitolo del dittico
che il grande regista ha deciso di dedicare alla battaglia
di Iwo Jima. Il secondo capitolo – Lettere da Iwo Jima
– lo tratterà dalla parte dei giapponesi in un
affresco dove non ci sono buoni e cattivi ma solo uomini-contro
in nome di un ideale.
Beato quel paese che non ha bisogno di eroi. Non è
il caso degli Stati Uniti d’America che sulla fabbrica
di eroi ha costruito il suo mito e gran parte della sua storia.
Capace di sfornare eroi quotidiani che potessero essere da
esempio illuminato dei valori americani, per tenere unita
una nazione multietnica nei momenti più sconfortanti
e drammatici della sua storia tanto recente (vedi l’11
settembre 2001) quanto passata (dal Vietnam ai drammatici
assassini politici della sua storia).
Anche l’innalzamento della bandiera di Iwo Jima non
è che un anello di questa catena di montaggio del mito
americano. Un semplice gesto di incoraggiamento verso le truppe
in difficoltà, strumentalizzato come segno di imminente
vittoria e sei semplici uomini trasformati loro malgrado in
eroi per caso.
Clint Eastwood racconta la vera storia di quel gesto, del
significato che assunse sia per l’America ma soprattutto
per i soldati che ne furono protagonisti, attraverso un racconto
frammentato come le schegge di una granata, alternando e sovrapponendo
continuamente piani spaziali e temporali, legati tra loro
dalla fotografia desautorata e tendente ad un bianco e nero
d’annata di Tom Stern, storico collaboratore di Eastwood
dai tempi di Honkytonk Man.
Una scelta stilistica e narrativa che non convince fino in
fondo. Esteticamente il film risulta una sorta di fotocopia
di Salvate il soldato Ryan, ed
il sospetto è più che giustificato dalla presenza
di Spielberg come produttore, mentre i salti temporali risultano
alla lunga meccanici, appesantendo una sceneggiatura che probabilmente
avrebbe avuto bisogno di una maggior capacità di sintesi
soprattutto nel lungo finale, quando la retorica rischia di
travalicare gli argini. E per un tipo di poche parole come
Eastwood che aveva fatto del "non detto" il suo
punto di forza è un passo indietro.
Rimane comunque impressa nella mente almeno una grande sequenza.
Lo sbarco degli americani sull’isola. Contrariamente
a quanto accadeva in Soldato Ryan, i Marines non furono accolti
da una bordata di pallottole, ma da un lungo silenzio. Una
calma apparente che però tra gli arbusti, sotto la
sabbia, dentro le cicatrici della montagna mostra segnali
evidenti della che da li a poco si sarebbe scatenata. Bocche
di cannone pronte all’uso, mirini di mitragliatrici
automatiche indirizzate contro i corpi e le divise di uomini
che inconsapevolmente camminavano verso il loro destino. Sequenza
straziante per la tensione costruita e cinematograficamente
perfetta. [fabio melandri]
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