Fast
Food Nation
nasce come libro. Nel 2001 quando fa la sua comparsa nel panorama
editoriale statunitense è subito un successo: è
stato letto da “più persone di quante il mio
ego potesse desiderare” afferma il suo autore Eric Schlosser.
E questo non può che essere un bene. Per una volta
un bestseller ha il coraggio di farsi portavoce della controcultura
statunitense senza remore e con forza. Schlosser picchia duro
sull’industria alimentare dei fast food e sui metodi
aziendali applicati tra condizioni pericolosamente antigieniche
e manodopera a basso costo (in genere immigrati clandestini).
Nel 2006 il regista Richard Linklater, famoso per il suo cinema
indipendente e anticonformista, decide di adattare Fast
Food Nation per
il grande schermo avvalendosi della collaborazione dello stesso
Schlosser. Ma Linklater non opta per il documentario come
ci si potrebbe aspettare. Preferisce mettere alla berlina
il sistema alimentare statunitense attraverso la storia di
più personaggi concatenati tra loro: un gruppo di immigrati
messicani, un’inserviente di fast food, un manager aziendale,
dei giovani dissidenti. Le loro storie corrono parallele ma
in certi punti riescono anche ad incrociarsi senza però
formare mai una figura di senso compiuto. Quasi a testimonianza
di un’impossibilità di soluzione.
Non c’è speranza questo sembra dirci Linklater
che ha uno sguardo davvero pessimista sulla realtà
del suo Paese: gli immigrati non hanno scelta e pur di non
tornare in Messico sottostanno a qualsiasi compromesso (economico,
psicologico, sessuale), il manager, anche se venuto a conoscenza
della pericolosa realtà dei fatti, preferisce chiudere
un occhio in nome del business, l’inserviente si licenzia
e si unisce al gruppo di dissidenti che però non riesce
a mettere in pratica i suoi aulici ideali e fallisce ogni
tentativo di protesta.
C’è purtroppo da dire che forse proprio in questo,
ossia nel meccanismo narrativo meramente cinematografico,
il film perde parte della sua incisività. Il cinema
è finzione e anche quando il messaggio che si vuole
trasmettere è importante e forte la sovrapposizione
di storie fittizie a situazioni realmente esistenti finisce
per inficiarne il vero significato. In un caso come questo
il documentario alla Michael Moore per intendersi avrebbe
maggiormente giovato.
Ne esce fuori un ritratto della società americana di
oggi sì inquietante e indigesto ma anche velato di
quella tragicità drammaturgica da copione che un po’
esula dal suo vero fine di denuncia. Vedere Ethan Hawke che
spinge la nipote a ribellarsi al sistema o Kris Kristoffersson
che rivela le condizioni igieniche del mattatoio in cui lavorava
o la Sandino Moreno che concia le carcasse bovine o ancora
Bruce Willis che ammette che nella carne degli hamburger ci
sono escrementi non ha la stessa valenza di vedere le persone
che davvero hanno vissuto quelle esperienze e sentire le loro
testimonianze.
Resta comunque un film politico importante e necessario. Soprattutto
per gli spunti di riflessione che lancia rispetto alla catena
macinasoldi dei fast food e all’influenza e al controllo
che esercita sulla nostra economia, sulla nostra salute e
sulla nostra vita.
Se siamo davvero quello che mangiamo non c’è
da stare allegri…
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