John Savage (Philip Seymour Hoffman) e Wendy Savage (Laura
Linney, candidata agli Oscar 2008 come migliore attrice) sono
fratello e sorella. Uno vive a Buffalo e fa il professore
in un college, l’altra abita a New York, è impiegata
ma sogna di diventare autrice teatrale.
Da tempo vivono lontani e si sentono raramente, ognuno con
i suoi problemi quotidiani. Una sera Wendy trova sulla segreteria
un messaggio: il padre (Philip Bosco), che vive a Sun City
con la sua compagna in una casa di cura, ha scritto sul muro
del bagno un insulto, usando le sue feci. Devono andare da
lui e ricoverato in ospedale per demenza senile. Ad aggravare
la situazione c’è la morte della sua compagna,
nonché padrona di casa. Da questo momento per i due
consanguinei iniziano il percorso verso la ricerca di una
casa di cura comoda ed economica, la riscoperta l’uno
dell’altra e la maturità, raggiunta anche tramite
quel padre che non amano e che li ha cresciuti senza affetto.
Il tema della vecchiaia, della malattia e della maturità
non è nuovo, ma il modo come Tamara Jenkins (candidata
nella cinquina 2008 per la migliore scenegiatura) l’ha
trattato è drammatico, duro e ironico nello stesso
tempo. La regista-sceneggiatrice racconta: “Era qualcosa
che stava avvenendo ovunque intorno a me e, sulle prime, ho
avuto paura di scrivere di questo tema. È un argomento
che intimidisce ma, in ultima analisi, penso che La
famiglia Savage sia una storia che non solo affronta
il problema della morte, ma si focalizza anche sull’importanza
di cogliere la propria vita, anche nelle sfaccettature più
tenui”.
La genesi del film è articolata. La Jenkins comincia
a parlare dell’argomento a New York, in una Spoken Word
Performance nel locale “The Moth”. Durante il
monologo racconta le sue esperienze personali, le notevoli
difficoltà incontrate con il padre, malato di demenza,
durante un volo in aereo. Il successo del reading fu tale,
da spingerla a scrivere la sceneggiatura della famiglia Savage,
riferendosi anche alla favola di Hansel e Gretel. “In
fondo – precisa la regista di L'altra
faccia di Beverly Hills -, è la storia di due
bambini che per la prima volta si confrontano con la mortalità.
Wendy e John sono un fratello e una sorella costretti a compiere
un viaggio nel mondo surreale della vecchiaia al quale non
sono sicuri di poter sopravvivere”.
Girata in trenta giorni tra New York, Buffalo e l’Arizona,
la pellicola è stata presentata al Sundance Film Festival
e scelta dal direttore artistico Nanni Moretti per inaugurare
l’ultima edizione del Torino Film Festival.
La senilità è presentata senza edulcorante:
in modo onesto, inframmezzando la desolazione con l’ironia.
Se da una parte John ha una visione brutale e realistica della
vita – quando si trovano nel parcheggio di una casa
di cura riesce ad esprimere perfettamente la condizione in
cui si trovano –, dall’altra Wendy cerca il modo
per far trascorrere gli ultimi giorni di vita del padre in
modo decente. E nulla la può fermare: se ha comprato
un cuscino rosso per farlo stare più comodo, è
in grado di strapparlo con violenza dalle mani di un’altra
ospite nella clinica… La vita è stressante? Basta
prendere un antidepressivo rubato dall’armadietto della
morta e sorriderà di nuovo.
I fratelli Savage cresceranno grazie a questa esperienza.
All’inizio sono due perdenti: uno frustrato sul lavoro
e abbandonato dalla partner perché incapace di lasciarsi
andare; l’altra non riesce a chiudere la storia con
un uomo sposato e tenta di diventare una drammaturga chiedendo
borse di studio a istituzioni improbabili. La pellicola si
conclude in un teatro. Momento coinvolgente, che spiega il
senso di molte affermazioni fatte durante il film, senza alcuna
retorica. La famiglia Savage è un film tragico, comico,
romantico, intenso film da non lasciarsi sfuggire. [valentina
venturi]