“Dietro
ogni paura si nasconde un desiderio”.
E’ questo l’assunto, inconscio fino al lucido
delirio finale, che muove i folli passi di Edmond Burke, impiegato
della middle-class di Los Angeles, un lavoro più che
dignitoso, una bella casa e una moglie avvenente, nel momento
in cui si accorge, o forse, meglio, decide, che la sua vita
da medio borghese gli va stretta, e inizia, quasi in trance,
un viaggio che crede di redenzione, ma che sarà una
caduta negli inferi senza ritorno.
Stuart Gordon, autore e regista teatrale che da anni non disdegna
il cinema, di cui al contrario è prolifico autore,
si basa su quella che le note di regia definiscono una ‘commedia’
di David Mamet, ma che appare come una cinica e corrosivamente
ironica tragedia dell’umano.
Gordon assembla un cast di tutto rispetto, guidato da un formidabile
William H. Macy in una delle parti probabilmente migliori
di tutta la sua carriera, ma che annovera camei e apparizioni
più o meno importanti di attori del calibro di Joe
Mantenga, Mena Suvari e Julia Stiles.
Secondo il consueto canovaccio del ‘tutto in una notte’,
il film di Gordon si muove agile (appena 80 i minuti di durata)
nel buio losangelino (a parte una breve e significativa appendice),
che Edmond, dopo aver lasciato la moglie, affronta spaesato,
in cerca di una risposta che, nonostante tutti gli sforzi,
non sa e non può darsi.
Illuso che la vita, quella vera, si celi tra le gambe di una
prostituta da 200 dollari l’ora, e che l’umanità
trabocchi di comprensione, di fiducia, il cammino del disilluso
e maldestro impiegato tende al buio, al baratro, virando improvvisamente
in un rifiuto razzista e omofobo del diverso, le cui conseguenze
saranno terribili e definitive.
Il regista restituisce pienamente lo sconcerto dell’assistere
al mutamento repentino e radicale di un impiegato quarantasettenne
in un catatonico disturbato schizofrenico, pronto a commuoversi
per un cappellino come ad infuriarsi di fronte a una domanda
alla quale non gli viene data risposta. Ed è sorprendente
e agghiacciante accorgersi di come, questa storia di ordinaria
follia (nel termine proprio e antico della parola) metropolitana
sia assolutamente plausibile, senza bisogno di un Vietnam
alle spalle per sviscerarla e comprenderla (l’accostamento,
ci venga perdonato il paragone, è con il capolavoro
scorsesiano di Taxi driver), ma di come basti una vita insoddisfacente
di impiegato aziendale a renderla credibile agli occhi di
chi osserva.
Ma mentre la storia di Scorsese si sostanziava, faceva emergere
un contenuto, un corpo contenutistico oltre che narrativo,
il film di Gordon fatica a lasciarsi alle spalle la superficie
sterile di una spelucazione teorico-filosofica sulla normalità
e sul desiderio umano, esercizio di stile da salotto ‘bene’,
da chiacchere ciniche intellettualistiche e cervellotiche.
Con il piglio del miglior Truman Capote, ma senza averne la
stessa immedesimazione con l’umano, con il reale, Gordon
racconta così il proprio punto di vista sulla follia,
sulla paura e sul desiderio, lasciando il giudizio sospeso,
cercando in facili eccessi di messa in scena una soluzione
che, come per il suo protagonista, è impossibile a
trovare, forse perché inesistente.
Tutt’altra cosa sarebbe stata raccontare ‘la’
follia, ‘la’ paura, ‘il’ desiderio.
[pietro salvatori]
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