E venne
il giorno
è un film di Shyamalan.
E questa potrebbe essere una banalità, direte voi.
Ma E venne il giorno è
un film di Shyamalan in un senso che abbraccia altro, oltre
il mero fatto tecnico che la regia viene firmata dal piccolo
regista indiano.
La pellicola si va infatti a collocare in un universo di riferimento
ben preciso, quel mondo creato pazientemente proprio da Shyamalan
nel corso della sua filmografia, e che è oggi qualcosa
di più di una serie di film improntati allo stesso
stile. E venne il giorno è
dunque un pò come se lo aspetta chiunque abbia avuto
a che fare con i vari Sesto senso,
The Village, Signs
e via discorrendo.
Il grande mistero, il motore narrativo scelto dal regista
questa volta è una particella tossica emessa dalle
piante che induce il cervello dell’essere umano all’autodistruzione.
Questa una breve sinossi descrittiva, che bene riassume ad
uno spettatore distratto il nocciolo della vicenda, ma che
si rivela del tutto parziale e approssimata di fronte ad una
seconda visione.
Shyamalan come al solito usa le proprie storie per raccontare
d’altro, per parlare di cinema per lo più, per
esplorare le potenzialità e la profondità di
un mezzo troppo legato alla “trama”, e che ha
invece in potenza modalità espressive di enorme spessore.
Fioccheranno dunque le interpretazioni su cosa in realtà
il film significhi, di cosa sia metafora, su che intrecci
nasconda. Ma per tutta la propria carriera Shyamalan si è
attenuto all’univocità di senso: quello che accade
è esattamente quello che accade, e non altro. Da questo
assunto parte anche E venne il giorno,
che indaga e studia il proprio pubblico, raccogliendolo nella
bambagia di una spiegazione che si rivela per lo meno parziale
se ci si sofferma un attimo in più a pensare.
Giocando così su due tavoli, il regista spariglia ancora
una volta il campo, concentrandosi sul mezzo-cinema e prendendo
la storia come pretesto.
Una pellicola che, se si vuole azzardare un paragone, assomiglia
a Signs, per costruzione e disvelamento,
per gestione degli spazi e alternanza di sequenze, anche se
si ritrova uno Shyamalan non al meglio, che evidenzia alcune
difficoltà di costruzione e di gestione del proprio
girato.
Dopo lo splendido inizio privo di epilogo, il film infatti
marca qualche passaggio a vuoto, sia nella costruzione dei
dialoghi che rispetto ad alcuni nessi narrativi, come l’ultima
sequenza ambientata a Parigi, che attua un depotenziamento
in senso didascalico della pellicola intera.Come al solito
dunque, Shyamalan affascinerà chi lo ama e scontenterà
chi già lo avversa, senza creare particolari scossoni
tra le due fazioni di cinefile. [pietro
salvatori]