La
via italiana al thriller, passa attraverso il lavoro del braccio
letterario della factory Colorado, la Colorado Noir, il cui
obiettivo dichiarato è quello di trovare giovani autori
con storie da portare in seguito sul grande schermo. Un lavoro
di ricerca che ha prodotto lo scorso anno il Quo
Vadis, baby? di Gabriele Salvatores e che oggi, in attesa
di trovare nuovi soggetti, ha portato alla trasposizione del
romanzo edito da Einaudi 'La cura del Gorilla', secondo romanzo
di Sandrone Dazieri, per la regia del debuttante Carlo A. Sigon
– un passato nel ramo pubblicitario, telelviso e cortometraggi
– con Claudio Bisio, Stefania Rocca ed Ernest Borgnine.
Sandrone, detto Gorilla, soffre sin da bambino di uno sdoppiamento
di personalità che lo porta a dividere il suo corpo tra
il suo IO bonario, ironico e cialtrone e l’alter-EGO freddo,
razionale, violento. Uno sdoppiamento di personalità
assai funzionale al suo lavoro di bounty-killer solitario, che
lo porta a fare la conoscenza di Vera un’attivista coinvolta
sentimentalmente con una giovane albanese assassinato in circostanze
misteriose. Da qui parte un’indagine che lo porterà
a dover fare i conti con i pregiudizi suoi e della società,
in cui in maniera semplicistica il mondo viene dicotomicamente
diviso tra buoni, tutti personaggi border line, e cattivi, perfettamente
integrati nella società e dal ruolo sociale irreprensibile.
Uno spaghetti-thriller, come definito dal regista Sigon “Non
so esattamente cosa voglia dire ma mi sembra una definizione
che possa esprimere bene lo spirito di un film, tratto da un
romanzo noir, ma che noir non è fino alle estreme conseguenze.
C’è un morto, un’indagine e alla fine un
colpevole, è vero, ma quello che più mi ha affascinato
dei libri di Sandrone è lo sdoppiamento del protagonista,
il Gorilla ed il suo Socio. Una schizofrenia più ideologica
che clinica, traumatica forse, a volte dolorosa ma ormai assodata,
non tragica, che mette il personaggio ogni giorno di fronte
all’altro se stesso.” Un Io, me e Vera calato nelle
luci fredde e notturni di una metropoli italiana, che gioca
con tutti gli stereotipi del thriller e del western, dai personaggi
all’uso delle musiche senza quella necessaria re-interpretazione
a giustificare un’operazione che risulta alquanto manierista
e fine a se stessa.
La voce off onnisciente che spiega, illustra, commenta gli eventi
funge da eco in una sovrabbondanza di elementi e spunti di cui
non si sentiva la necessità; la regia si impantana in
ripetitività reiterate e aridità creative –
vedi il dettaglio dell’occhio per segnalare il passaggio
del protagonista da una personalità all’altra –;
le interpretazioni degli attori non convincono in pieno a partire
dal protagonista Claudio Bisio, troppo spesso sembra non credere
lui per primo a quanto dice e fa, per arrivare al comprimario
di lusso Ernest Borgnine, il cui ruolo è avulso all’economia
generale del racconto. Una digressione narrativa questa malamente
sviluppata ed ancora peggio conclusa, che distrae troppo l’attenzione
dalla vicenda principale. [fabio
melandri]
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