Un
uomo e il suo sogno. Un uomo che non è più giovane.
Ha 62 anni. Non ha più l’incoscienza di rischiare
tipica di chi ha ancora tutta una vita davanti. Eppure l’energia
per cambiare è la stessa. Dopo aver lavorato quarant’anni
in un cantiere navale, si rende conto che non potrà
andare avanti ancora per molto. Ha una famiglia numerosa ma
è divorziato. Vive con un’altra donna e la figlia
di lei. Il suo sogno è aprire un ristorante su una
nave. Ma Sète, un porto vicino a Marsiglia, è
una giungla. Ci sono già altri ristoranti lì
e i posti sono tutti occupati dalle navi in attracco. E poi
ci vogliono soldi, troppi per un ex operaio. Vecchio, povero
e arabo! Il non plus ultra per assicurarsi un buco nell’acqua.
Meno male che c’è la famiglia. Una famiglia numerosa,
piena di contrasti e tensioni è vero ma anche totalmente
unita intorno a questo improbabile progetto.
Un feuilleton familiare come lo definisce il regista maghrebino
Kechiche, lo stesso di “La schivata” e ancora
prima di “Tutta colpa di Voltaire”, presentato
qualche anno fa al festival di Venezia. Come nei suoi film
precedenti anche qui Kechiche tratta di arabi francesi e un
po’ anche di se stesso. C’è molto di lui
in questa famiglia allargata che parla arabo e francese, che
segue le proprie tradizioni ma si adatta ai costumi francesi,
che mangia cous cous e beve champagne. Una famiglia “aperta”,
pronta a venirsi incontro nelle difficoltà. Una famiglia
che finisce per rubare la scena all’evento portante
del film, l’utopia del cambiamento, il sogno del ristorante
sul barcone. Una famiglia che guarda al futuro, non necessariamente
sinonimo di perdita di identità. Per Kechiche gli schemi
mentali cui si sottosta quotidianamente sono ancora troppo
riduttivi. Non solo difesa ad oltranza del diritto alla differenza
ma anche rifiuto di stigmatizzazioni esotiche.
Kechiche rifugge la retorica semplicistica della diversità
e propende per le digressioni affettive. Il suo sguardo è
più che altro realistico. La scena del pranzo di famiglia
o ancora prima della figlia maggiore a tavola con il vecchio
padre che ha portato di nuovo pesce sono di un realismo impressionante,
quasi imbarazzante. Sembra davvero di stare a tavola con i
propri cari. I dialoghi, i toni, l’atmosfera. Tutto
riporta alla verità assoluta. L’arte di arrangiarsi,
di sapersi ascoltare, di interagire nello squilibrio degli
affetti. Tipico della vera famiglia. Estrema verità
di sentimento. Energica, disinibita, essenziale. Il sogno
diventa concreto, palpabile. Non se ne parla più, lo
si fa nostro. E se sarà reale solo per una sera poco
importa…La sfida è stata vinta. [marco
catola]
Note
di regia
Sono partito da una pura fantasia popolare,
il genere di storie che si ama raccontare nelle città,
il mito di quelli che “ce l’hanno fatta”,
in altre parole, che sono sfuggiti alla schiavitù moderna
rappresentata da una situazione professionale precaria, creando
la propria impresa.
Si tratta quindi di una storia d’avventura, in cui la
dimensione umana dei personaggi, anche quando sono all’interno
di un gruppo, o impegnati in un’azione forte, come nel
caso della precipitazione drammatica della seconda parte,
tende a costituire il motivo centrale. E mentre mi costringevo
a concentrare e a mantenere l’interesse attorno a quest’azione
principale, alla quale tengo per la sua forte dimensione euforica
e simbolica, per me era importante lasciare, paradossalmente,
libero corso alle digressioni che potevano venire ad impigliarsi
nella storia, come tante scappatelle giustificate dal semplice
piacere contemplativo degli avvenimenti della vita quotidiana
di un feuilleton familiare. L’alleanza tra la dimensione
romanzesca e la funzione dei personaggi e dell’ambiente
che li circonda, è per me primordiale. Da un lato perché
l’ambiente rappresentato è quello al quale appartengo,
e quindi sono affettivamente molto coinvolto, dall’altro
è anche perché esiste una reazione a degli schemi
ancora troppo spesso riduttivi, che volevo rappresentare questa
famiglia di “francesi-arabi” nella sua complessità,
impegnata nell’apertura di un ristorante a conduzione
familiare, quindi rivolta verso un futuro che non sia forzatamente
sinonimo della negazione della propria particolarità.
Fare un’arringa energica e disinibita del diritto alla
differenza, senza per questo cadere nella stigmatizzazione
sdegnosa e riduttrice della rappresentazione esotica, costituisce
una doppia posta in gioco, essenziale, alla quale credo mi
predisponga il mio sguardo coinvolto affettivamente.
Abdellatif Kechiche