Cous cous
La Graine et le mulet
Regia
Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura
Abdellatif Kechiche
Fotografia
Lubomir Bakchev
Montaggio
Ghalya Lacroix, Camille Toubkis
Scenografia
Benoit Barouh
Costumi
Maria Beloso Hall
Musica
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Interpreti

Habib Boufares, Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche,
Bouraouia Marzouk, Alice Houri, Cyril Favre

Produzione
Hirsch / Pathè Renn Production
Anno
2007
Nazione
Francia
Genere
commedia
Durata
150'
Distribuzione
Lucky Red
Uscita
11-01-2008
Giudizio
Media

Un uomo e il suo sogno. Un uomo che non è più giovane. Ha 62 anni. Non ha più l’incoscienza di rischiare tipica di chi ha ancora tutta una vita davanti. Eppure l’energia per cambiare è la stessa. Dopo aver lavorato quarant’anni in un cantiere navale, si rende conto che non potrà andare avanti ancora per molto. Ha una famiglia numerosa ma è divorziato. Vive con un’altra donna e la figlia di lei. Il suo sogno è aprire un ristorante su una nave. Ma Sète, un porto vicino a Marsiglia, è una giungla. Ci sono già altri ristoranti lì e i posti sono tutti occupati dalle navi in attracco. E poi ci vogliono soldi, troppi per un ex operaio. Vecchio, povero e arabo! Il non plus ultra per assicurarsi un buco nell’acqua. Meno male che c’è la famiglia. Una famiglia numerosa, piena di contrasti e tensioni è vero ma anche totalmente unita intorno a questo improbabile progetto.
Un feuilleton familiare come lo definisce il regista maghrebino Kechiche, lo stesso di “La schivata” e ancora prima di “Tutta colpa di Voltaire”, presentato qualche anno fa al festival di Venezia. Come nei suoi film precedenti anche qui Kechiche tratta di arabi francesi e un po’ anche di se stesso. C’è molto di lui in questa famiglia allargata che parla arabo e francese, che segue le proprie tradizioni ma si adatta ai costumi francesi, che mangia cous cous e beve champagne. Una famiglia “aperta”, pronta a venirsi incontro nelle difficoltà. Una famiglia che finisce per rubare la scena all’evento portante del film, l’utopia del cambiamento, il sogno del ristorante sul barcone. Una famiglia che guarda al futuro, non necessariamente sinonimo di perdita di identità. Per Kechiche gli schemi mentali cui si sottosta quotidianamente sono ancora troppo riduttivi. Non solo difesa ad oltranza del diritto alla differenza ma anche rifiuto di stigmatizzazioni esotiche.
Kechiche rifugge la retorica semplicistica della diversità e propende per le digressioni affettive. Il suo sguardo è più che altro realistico. La scena del pranzo di famiglia o ancora prima della figlia maggiore a tavola con il vecchio padre che ha portato di nuovo pesce sono di un realismo impressionante, quasi imbarazzante. Sembra davvero di stare a tavola con i propri cari. I dialoghi, i toni, l’atmosfera. Tutto riporta alla verità assoluta. L’arte di arrangiarsi, di sapersi ascoltare, di interagire nello squilibrio degli affetti. Tipico della vera famiglia. Estrema verità di sentimento. Energica, disinibita, essenziale. Il sogno diventa concreto, palpabile. Non se ne parla più, lo si fa nostro. E se sarà reale solo per una sera poco importa…La sfida è stata vinta. [marco catola]

Note di regia
Sono partito da una pura fantasia popolare, il genere di storie che si ama raccontare nelle città, il mito di quelli che “ce l’hanno fatta”, in altre parole, che sono sfuggiti alla schiavitù moderna rappresentata da una situazione professionale precaria, creando la propria impresa.
Si tratta quindi di una storia d’avventura, in cui la dimensione umana dei personaggi, anche quando sono all’interno di un gruppo, o impegnati in un’azione forte, come nel caso della precipitazione drammatica della seconda parte, tende a costituire il motivo centrale. E mentre mi costringevo a concentrare e a mantenere l’interesse attorno a quest’azione principale, alla quale tengo per la sua forte dimensione euforica e simbolica, per me era importante lasciare, paradossalmente, libero corso alle digressioni che potevano venire ad impigliarsi nella storia, come tante scappatelle giustificate dal semplice piacere contemplativo degli avvenimenti della vita quotidiana di un feuilleton familiare. L’alleanza tra la dimensione romanzesca e la funzione dei personaggi e dell’ambiente che li circonda, è per me primordiale. Da un lato perché l’ambiente rappresentato è quello al quale appartengo, e quindi sono affettivamente molto coinvolto, dall’altro è anche perché esiste una reazione a degli schemi ancora troppo spesso riduttivi, che volevo rappresentare questa famiglia di “francesi-arabi” nella sua complessità, impegnata nell’apertura di un ristorante a conduzione familiare, quindi rivolta verso un futuro che non sia forzatamente sinonimo della negazione della propria particolarità. Fare un’arringa energica e disinibita del diritto alla differenza, senza per questo cadere nella stigmatizzazione sdegnosa e riduttrice della rappresentazione esotica, costituisce una doppia posta in gioco, essenziale, alla quale credo mi predisponga il mio sguardo coinvolto affettivamente.

Abdellatif Kechiche