Provincia
del Nord Italia. Una landa desolata alle pendici di maestose
montagne. Case sparse e costruite lungo una superstrada in
mezzo a enormi depositi di legna, centri commerciali e neon.
Qui vivono un padre e un figlio. Rino e Cristiano Zena. Rino
è un disoccupato, meglio un lavoratore precario. Cristiano
fa le scuole medie. Il loro è un rapporto d’amore
tragico e oscuro. Soli combattono contro tutto. Rino educa
suo figlio come può. Come sa. Cristiano lo ama, lo
venera, lo considera il suo faro, la sua guida spirituale.
Un amore sbagliato, ma potentissimo. Hanno un solo amico.
Si chiama Quattro Formaggi. Che non sta tanto bene. Per via
di un incidente, la sua testa non funziona più come
prima. Quattro Formaggi vive per Rino, adora Cristiano, e
passa le sue giornate in casa costruendo uno strano presepio,
fatto di pupazzi, soldatini, bambole e oggetti che lui recupera
dalle discariche della città...
Note
di regia: Gabriele Salvatores
“E l’innocente lo seguì,
senza le armi lo seguì sulla sua cattiva strada.”
(Fabrizio De André)
Il primo
a dirlo è stato proprio Niccolò Ammaniti. Per
trarre un film dal suo romanzo ricco di 500 pagine e di una
miriade di personaggi sorprendenti, tragici e comici, bisognava
essere drastici e rinunciare a tante cose. Andare al cuore
del romanzo, a quel rapporto tra padre e figlio che è
la linfa emozionale della storia. Rinunciare all’affresco
umano e sociale e concentrarci sulla dimensione ancestrale
di questo rapporto: un lupo e il suo cucciolo.
A
differenza di “Io non ho paura”, che rispecchia
fedelmente il romanzo da cui è tratto, qui dovevamo
tagliare, ferire, a volte tradire.
Ci sono film che, come i bambini, crescono e acquistano, un
po’ alla volta, una vita propria. E quando scegli gli
attori, che è già metà dell’opera
di costruzione di un personaggio, è bello poi vederli
interpretare la musica che hai scritto e, magari, cambiarla.
Così ti sembra nuova. E puoi immaginarti perfettamente
i luoghi dove ambienterai il tuo film, ma poi arrivi in un
posto, osservi un cielo o il greto di un fiume e la storia
che vuoi raccontare fiorisce, si illumina, prende forza, anche
se quel luogo è così diverso da quello che avevi
in mente. Questo film è cambiato tante volte nelle
nostre teste, ma un giorno è diventato adulto, ci ha
guardato negli occhi e noi abbiamo dovuto fare i conti con
lui.
Capannoni
industriali, fabbriche, casette a schiera, centri commerciali,
immense segherie, cumuli di alberi tagliati e accatastati
ordinatamente… Ma intorno, tutto intorno, le montagne
e i boschi impenetrabili, i fiumi che si inabissano, lasciando
scoperti i sassi dei greti asciutti, come deserti, acque trattenute
dalle dighe tra le gole delle montagne, una terra che trema
e freme: la natura che ti accerchia, pronta a riprendersi
quello che le hai strappato o che hai cercato di governare,
pronta a rompere gli argini e a travolgerti in una notte di
tempesta. E a liberare la parte animale che è in te.
Come in Shakespeare. C’è un “prima”,
c’è una notte tempestosa e c’è un
“dopo”. Ci sono tre personaggi: c’è
un re, padre-padrone, c’è un figlio-principe
adolescente e c’è un “fool”, un matto,
un buffone. E, spesso, i personaggi di Shakespeare nel primo
atto si raccontano al pubblico, nel secondo atto naufragano
su isole deserte, si perdono di notte in boschi intricati
o in lande desolate nel mezzo di una tempesta e, nel terzo
atto, escono trasformati da quell’esperienza. Gli adolescenti
crescono e il padre, dio, re, padrone appare ai loro occhi,
finalmente, solo come un uomo. Anche il padre Rino, il figlio
Cristiano e il fool Quattro Formaggi, si ritrovano di notte,
in un bosco, durante una tempesta…
Rino,
Cristiano e Quattro Formaggi sono tre personaggi scomodi,
tre persone che non vorremmo incontrare, tre disgraziati che
hanno imboccato la “cattiva strada”. Definitivamente
soli, alla ricerca di una qualsiasi identità, magari,
come nel caso di Rino, preconfezionata e costruita per giustificare
la rabbia che nasce in conflitti scatenati da ragioni economiche
o che nasconde quel senso di disperazione che sempre più
spesso abita questi anni in cui viviamo. Ma, come canta De
André: “C’è amore un po’ per
tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada”.
Abbiamo dovuto camminare al loro fianco. Li abbiamo osservati
con comprensione, a volte con affetto, anche se dicono e fanno
cose spaventose.
Ho dovuto
condividere questo amore tra Rino e suo figlio, questo amore
assoluto, totale e sbagliato, che invidio e che non so se
sarei capace di provare.
Rendere
“leggera” la parte tecnologica. Non far sentire
agli attori la macchina da presa, le luci, la scenografia,
i microfoni. Dare libertà. Non cercare altri punti
di vista se non quello di un osservatore in mezzo ai personaggi,
molto vicino a loro. Ad altezza d’uomo. E’ solo
Dio che guarda il mondo dall’alto. Ma dov’è
Dio in questa landa desolata?
Il film è girato praticamente tutto con la macchina
in spalla, muovendoci con gli attori, spiandoli senza dare
loro riferimenti fissi. Li abbiamo seguiti sotto la pioggia
o nel fango, ci siamo infilati nelle loro risse o nei loro
abbracci, senza interromperli, infradiciandoci e sporcandoci
con loro. Ci siamo buttati addosso più di 150.000 litri
d’acqua oltre alla pioggia, quella vera. Con temperature
intorno allo zero e vento e fango. Sono cose che aiutano.
É come essere in guerra: non c’è bisogno
di fingere, né di “recitare”.
Non c’è
mai stato un elenco di inquadrature o uno story board. Il
film è stato, invece, realizzato con più piani
sequenza che poi sono stati interrotti e incrociati in montaggio,
girando comunque dall’inizio alla fine le singole scene
senza interrompere la ripresa.
Rimanere
sempre agganciati all’emozione, anche nel montaggio.
Se un personaggio entra in un corridoio, non occorre farglielo
percorrere per intero. Il pubblico non ha bisogno di vedere
l’esterno di un ospedale per capire che la scena che
sta guardando si svolge in una stanza di ospedale.
Ho
chiesto ai musicisti, il gruppo romano Mokadelic, di non scrivere
la musica “per” il film. Ho chiesto di avere dei
brani ispirati al film e ai suoi personaggi e di avere questa
musica prima delle riprese. Per lasciarci influenzare dalla
musica e non usarla per “vestire” meglio il film.
Girare con la musica. Musica concreta, che si sente che è
suonata da qualcuno. Ma senza voce che canta, senza parole.
Quel che resta del rock dopo il diluvio. Ci sono anche tre
vere canzoni “pop” che sentiamo venire dalla radio
o dalle cuffiette dell’I-Pod.
E che fanno uno strano effetto messe nel contesto in cui si
trovano. Come ascoltare una canzone d’amore mentre si
commette un omicidio.
Sarebbe
bello che questo film avesse un livello narrativo che continua
a bruciare, ma non si consuma mai. Come il rock.