Fin dai titoli
di testa capisci che non è andato tutto bene. Una didascalia
ci avverte che quello che stiamo per vedere è il contenuto
di un nastro ritrovato nell'area denominata US443, un tempo
conosciuta come Central Park. Se Central Park non esiste più,
qualcosa di molto simile ad una catastrofe nucleare si è
abbattuta su New York e noi, gli spettatori siamo i testimoni/sopravvissuti
di un'apocalisse che è già accaduta ma che paradossalmente
sta ancora per accadere. Miracoli del flashback che comprime
il tempo e ci proietta in una dimensione posteriore ma contemporaneamente
ancora tutta da verificarsi.
Il nastro era nella videocamera di Rob un giovane rampante
in carriera della Manhattan dei piani alti, in partenza per
il Giappone.
Rob gioca con la videocamera, non sa usarla, è uno
degli innumerevoli gingilli elettronici con cui filtra la
realtà, dal cellulare all'i-pod di ultima generazione.
Nel loft del padre di Beth, Rob si gode il panorama di una
Manhattan che si sveglia all'alba ma che non dorme mai. Rob
e Beth trascorrono una giornata indimenticabile a Coney Islands.
Il nastro si interrompe bruscamente. Frammenti di realtà
si susseguono costringendo il pubblico ad una ricognizione
immediata della sequenza temporale. Dopo un anno la videocamera
è in mano a Jason, suo fratello, che la maneggia maldestro,
incaricato da Lilly, la sua ragazza, a organizzare la festa
a sorpresa per Rob. Come nei matrimoni ogni invitato lascerà
un messaggio di auguri per il festeggiato. Ma Jason se ne
libera subito e la molla a Hud, il simpaticone del gruppo
imbranato con le donne. Al party arriva anche Beth che si
presenta col suo nuovo ragazzo. La reazione di Rob è
aggressiva e impietosa. Beth lo ama ma Rob la caccia via dalla
festa e dalla sua vita, perché sceglie la carriera
e il Giappone ai suoi dolci occhi da cerbiatta e al suo corpo
da modella. Ma quando Jason e Hud provano a farlo ragionare,
tirando fuori i peggiori luoghi comuni su tutto ciò
che comporta un rapporto a distanza (sprecandosi in battute
esemplari come "Tu non la meriti") un evento imprevedibile
e violento come un terremoto in grado di far tremare le fondamenta
di un grattacielo interrompe ogni discussione e li obbliga
ad assistere a quello che non avrebbero mai pensato di assistere,
almeno non così a breve distanza dopo l'11 settembre.
La deflagrazione di interi edifici, il loro collasso e il
loro afflosciarsi su se stessi, tra spaventosi boati e grida
disumane. Nubi di polvere ricoprono le strade e le arterie
principali impedendo ogni movimento. E con il crollo dei grattacieli
per estensione siamo spinti a guardare inermi prima al crollo
di Manhattan e poi a quello di una civiltà, la nostra
per mano di un mostro non meglio identificato che ricorda
non troppo vagamente il nipponico Godzilla, invulnerabile
e spaventoso.
Come raccontare una materia così vasta che si innesta
nelle nostre paure più profonde e che dopo l'attacco
alle torri gemelle è diventata di stringente attualità?
Il geniale produttore J.J.Abrams, creatore delle serie Alias
e Lost, insieme con il regista
Matt Reeves e con lo sceneggiatore Drew Goddard scelgono un
meccanismo narrativo di matrice televisiva di una potenza
spettacolare.
Operano all'interno di una griglia spazio temporale definita
fin dalle prime sequenze. Dal punto di vista temporale è
la cronaca di una notte, comincia dall'ora di cena e si conclude
all'alba del giorno dopo. Lo spazio invece in cui si muovono
i personaggi è Manhattan che si trasforma immediatamente
in una prigione infernale, un'isola da cui è impossibile
fuggire. Il Godzilla sorto dagli abissi dell'oceano e che
non vedremo mai nella sua interezza, tranne che per i dettagli
e che si manifesta grazie a un esercito di creature demoniache
che si originano dal suo corpo, disintegra i ponti e rende
impraticabile ogni via di salvezza.
Dentro quest'arena circoscritta, lo stile di regia adottato
per innovare un genere catastrofico che rischia di essere
noioso e banale è quello della soggettiva assoluta.
Come in alcuni esperimenti cinematografici della nouvelle
vague e come in Guy di Michael Lindsay Hogg, assistiamo agli
eventi nell'istante stesso in cui accadono, mantenendo alta
l'adrenalina e garantendo un effetto sorpresa che non lascia
il tempo ai personaggi e al pubblico di ragionare e di risolvere
l'emergenza. L'uso del fuori campo quindi è determinante
per innescare i meccanismi di paura e di ansia, all'occhio
è proibita la visione e la comprensione degli eventi.
Le conseguenze filosofiche e psicanalitiche vengono arginate
e sacrificate all'interno di un genere narrativo che non ammette
deviazioni di sorta. Se la storia d'amore che dà benzina
alle azioni dei personaggi (se si trattasse soltanto della
cronaca di una salvezza da una catastrofe avremmo avuto un
qualsiasi b-movie) è superficiale e mostra il fianco
alla scarsa credibilità, indubbiamente come film di
fantascienza, Cloverfield si pone come
la vera novità dell'anno sia dal punto di vista linguistico
che commerciale.
[matteo
cafiero]