Pur
non amando in particolare il regista Ron Howard, bisogna riconoscergli
un grande mestiere nel mettere in scena storie semplici, archetipiche,
miscelando con equilibrio elementi e snodi narrativi con il
giusto equilibrio di patos ed emozioni. D’altro canto
è difficile riconoscere in lui uno stile autoriale riconoscibile,
una poetica di fondo nelle sue opere, un tratto distintivo che
lo elevi al di sopra della soglia di generoso mestierante della
settima arte.
Detto questo è difficile stroncare un’opera come
Cinderella Man, che promette quanto
mantiene, sino in fondo ed anzi qualcosina di più. Presentato
Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film è
meno peggio di quanto uno si possa aspettare.
La storia potrebbe ricordare da molto vicino un altro film sulla
boxe che ebbe a suo tempo un incredibile quanto inaspettato
successo: Rocky. Qui abbiamo James J. Braddock, pugile durante
la Grande Depressione che per mantenere la famiglia calca gli
squallidi ring di mezza New York di sera e si adopera in lavori
saltuari di giorni. Appesantito dall’età e da numerosi
acciacchi, pur di mantenere unita la propria famiglia secondo
i dettami dell’onestà ed intraprendenza, Braddock
torna sul ring in una sfida che sembra impossibile da vincere.
Ma il Sogno Americano si fonda e si alimenta sul mito della
seconda opportunità che ogni uomo ha di riscattarsi.
Così Braddock infila una serie di vittorie tanto incredibili
quanto sofferte che lo porterà a battersi addirittura
per il titolo dei pesi massimi contro il massacratore di uomini
corrispondente al nome di Max Baer.
Detta così sembra la classica storia americana piena
di retorica e buonismo. In realtà in parte lo è,
ma è molto di più. E’ una storia vera innanzitutto;
è un ritratto convincente di uno dei periodi più
bui della storia americana, con immagini che sembrano tratte
da Furore di Steinbeck; è un racconto morale senza essere
moralistico; è un grande spettacolo; è un Rocky
meno retorico; è una grande prova attoriale di un attore
scostante come Russel Crowe.
Ron Howard sceglie uno stile di regia sommesso durante gli incontri
di boxe, con un uso parco se non assente della musica a favore
dei rumori dei pugni sui corpi, delle ossa che si incrinano
e rompono, dei sospiri degli atleti e delle grida di un pubblico
che vuole vedere scorrere il sangue ed il sudore.
Pur non amando in modo particolare i film sportivi, Cinderella
Man dall’alto dei suoi 144 minuti, tiene sempre alta e
desta l’attenzione dello spettatore, in una performance
attoriale che accanto a Crowe vede Renée Zellweger e
Paul Giamatti valide spalle di supporto in un commuovente gioco
di disperazione ed umanità. Un’opera che punta
al buonismo che c’è dentro di noi e che si lascia
apprezzare per quel che è, una piccola grande storia
di forza, volontà, umanità.
[fabio melandri]
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