Cesare deve morire
id.

Anno 2012

Nazione Italia

Genere documentario

Durata 76'

Uscita 02/03/2012

distribuzione
Sacher Distribuzione

Regia
Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura
Paolo e Vittorio Taviani, Fabio Cavalli
Fotografia
Simone Zampagni
Montaggio
Roberto Perpignani
Musica
Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Produzione
Kaos Cinematografica, Stemal Entertainment/Le Talee, Rai Cinema
Interpreti
Cosimo Rega,
Salvatore Striano, Giovanni Arcuri,
Antonio Frasca

 

La partecipazione degli ottuagenari fratelli Taviani in concorso al Festival di Berlino sarebbe potuta sembrare un azzardo o una forzatura, visto che mancavano dalle scene da circa sei anni col discutibile “La masseria delle allodole”. L'assegnazione dell'Orso d'oro potrebbe a maggior ragione rappresentare più un semplice tributo ad una splendida carriera che un giudizio nel merito, perchè sulla carta si tratta “solo” di un documentario, ma lo sguardo dei registi toscani questa volta è sorprendentemente vivo e acuto.

La narrazione si apre con gli applausi alla fine del “Giulio Cesare” di Shakespeare rappresentato nel carcere di Rebibbia. Una volta che i detenuti ritornano nelle loro celle, con un flashback ecco arrivare i provini, le fedine penali pesanti come macigni dei protagonisti in sovrimpressione e le loro storie di vita vissuta. Il solenne incedere della tragedia shakespeariana prende corpo nelle prove all'interno delle celle, nella biblioteca e nel cortile durante l'ora d'aria, in apparenza come un casuale work in progress, in realtà meticolosamente architettato. Bruto (Salvatore Striano, ex detenuto, oggi attore professionista) è un intenso e disperato rivoluzionario già segnato dal peso della sua colpa, Giulio Cesare (Giovanni Arcuri) è una figura allo stesso tempo umana e regale, popolare ed imponente, per quanto impersonata con apparente leggerezza da un detenuto.

La scelta del bianco e nero e di attori non professionisti, la ri-contestualizzazione di un testo classico, la contaminazione dello scritto originale con i dialetti degli attori rimandano inevitabilmente alla lezione pasoliniana. Nei suoi momenti più riusciti, il film sembra ritrovare proprio quella spontaneità portatrice di profonde verità, che aveva illuminato “Medea” come il “Vangelo secondo Matteo”. Altrove, quando con troppo didascalismo si vuole sottolineare come Shakespeare riesca a toccare nel profondo l'intimità di persone così lontane dall'argomento e dalla sua stessa poetica, si rischia di spezzare il pathos, come quando si vuol dire per forza qualcosa che era già evidente in sé.

Nel finale a colori ci sono di nuovo gli applausi del pubblico e l'angosciante ritorno di ciascun attore nella propria cella, seguito con freddezza dalla cinepresa. Come Bruto ha pagato il suo sanguinoso rifiuto della tirannia con la sconfitta e con la morte, così l'entusiasmo e la vitalità della messa in scena e dell'opera d'arte riportata in vita sono stati una conquista tanto grande quanto beffardamente effimera per i detenuti. Il cammino verso la libertà e verso l'espiazione è duro e ostico almeno quanto le mura di un carcere, e non esiste gesto assoluto e grandioso che possa alleggerirne il percorso. Con questa inesorabile e profonda lezione morale, i fratelli Taviani hanno conquistato la giuria di Berlino.
[emiliano duroni]