Il giovane
Juan Olivier, al suo primo incarico come secondino in un carcere
di massima sicurezza, si presenta al lavoro con un giorno
d’anticipo sul primo turno di guardia.
Mentre visita il braccio che rinchiude i detenuti più
pericolosi, un frammento di intonaco cade da una parete in
ristrutturazione e lo colpisce alla testa. Nel tentativo di
rianimarlo, le guardie lo distendono temporaneamente sulla
brandina di una cella al momento vuota: la cella 211. Ma non
hanno il tempo di aspettare che Juan si riprenda: il carismatico
Malamadre, leader indiscusso dei detenuti più pericolosi,
è riuscito ad assumere il controllo del braccio e a
scatenare una vera e propria rivolta. Alle guardie non resta
che togliersi da lì al più presto e mettersi
in salvo, abbandonando così l’ignaro Juan al
proprio destino in mezzo ai rivoltosi ….
Cella 211 è rappresentante
di un cinema “commerciale” di buon livello che
è raro vedere in Europa. Un cinema dove si vuole prima
di tutto raccontare una storia compatta, avvincente e originale,
senza inseguite tesi o retoriche. Quando si racconta bene
una storia i temi di cui essa è naturale portatrice
emergeranno da soli.
Cella 211 ha un ritmo e un senso
del racconto e dei personaggi che è impeccabile, ogni
rimando politico e di concetto risulta perfettamente limpido
ed omogeneo col resto della vicenda, tanto che ogni tentativo
di lettura critica ulteriore rischia di cadere nella vuota
speculazione.
[davide luppi]
Note
del regista:
Daniel Monzón
“Quando mi capitò tra le mani il romanzo Celda
211, lo lessi tutto d’un fiato e capii immediatamente
che avrei voluto portare la storia sul grande schermo.
Già l’inizio del racconto era impressionante:
introduceva un universo potente, realistico e di grande umanità,
e per tutto l’arco narrativo la vicenda si sviluppava
mantenendo una tensione a dir poco soffocante, con alcuni
colpi di scena memorabili.
Pensandolo in termini cinematografici, rappresentava per me
una sfida narrativa di alto livello; ero consapevole che mi
avrebbe lasciato poco spazio per poter fare altro se non spogliare
la messa in scena di qualunque artificio stilistico e mettere
la macchina da presa totalmente al servizio dei personaggi.
Perciò era necessario trovare un gruppo di attori che
fossero ineccepibili per quei ruoli. Ora, a film finito, mi
è difficile immaginare un cast più solido e
appropriato di quello che alla fine abbiamo scelto. Tutti,
dai due protagonisti principali, alla gang dei detenuti, al
gruppo delle guardie, a ognuna delle comparse, si sono lasciati
coinvolgere anima e corpo in questa avventura.
Per quanto Celda 211 fosse un romanzo di finzione, il primo
passo per poter ricostruire una storia ambientata in modo
realistico in un carcere, era quello di conoscere ciò
che si nascondeva in questo mondo, così vicino a tutti
noi e al tempo stesso così distante. Al momento di
scrivere la sceneggiatura, Jorge Guerricaechevarria e io dovevamo
essere consapevoli di ciò che raccontavamo, anche per
sapere fino a che punto potevamo eventualmente spingerci nel
dire cose non verosimili. Durante tutto l’anno in cui
eravamo impegnati con la scrittura, abbiamo cercato di trascorrere
quanto più tempo possibile con tutti coloro la cui
vita quotidiana fosse strettamente associata a quella del
carcere, e abbiamo dunque parlato con i detenuti, le loro
famiglie, le guardie carcerarie, gli educatori, cercando di
incontrarli in più occasioni e con frequenza.
Tutti ci hanno svelato il loro mondo, dimostrando una sorprendente,
per quanto comprensibile, ospitalità. Quando uno si
abitua a vivere tra quattro pareti, lontano dal mondo, comunicare
con l’esterno può diventare infatti quasi un
sollievo…
Alla fine ci siamo resi conto di come l’ambiente chiuso
della prigione non sia che un riflesso della stessa società
che lo genera, per quanto in forma concentrata. Come ci disse
un carcerato nella prigione di Valdemoro il mondo qui dentro
è esattamente identico al mondo esterno, l’unica
differenza è che è in formato Mp3.
Così, quasi senza aspettarcelo, grazie a questa serie
di visite in carcere – parlare di full immersion mi
sembra offensivo nei confronti di chi ha passato anche una
sola notte lì dentro – la nostra versione della
storia stava diventando man mano quasi una sorta di parabola.
La mia prima idea in merito allo stile del film era che dovesse
avvicinarsi a uno stile documentaristico. Durante lo sviluppo
della sceneggiatura questa mia intenzione si è rafforzata
ulteriormente. Questa storia avrebbe potuto scatenare una
forza dirompente solo se fossimo riusciti a ricreare nel contesto
una parvenza di autenticità. Doveva essere filmata
con la prontezza e la determinazione che si riscontrano in
una vera rivolta, con la camera a mano e in un luogo che fosse
credibile. Dovevamo trovare una vera prigione la cui
energia potesse scorrere dentro tutti noi, nelle nostre viscere.
Grazie all’aiuto delle autorità penitenziarie,
siamo riusciti ad avere a nostra disposizione un vecchio carcere
chiuso da dodici anni che la nostra équipe artistica
è riuscita a riportare in vita con un lavoro di ripulitura
e ristrutturazione durato mesi.
Camminando attraverso i corridoi, i cortili, le celle, ogni
angolo del carcere provinciale di Zamora, la sceneggiatura
è andata via via adattandosi agli spazi, come una sorta
di camaleonte. Era come se la disposizione delle sbarre, delle
scale, dei muri, delle celle, ci dettassero ogni inquadratura
e il potere che quello spazio emanava sembrava quasi che indicasse
agli attori gli atteggiamenti e i movimenti da adottare. A
volte sembrava che fosse proprio il carcere ad esigere quella
messa in scena, riscriveva il ritmo delle sequenze, indicava
con voce chiara ogni posizionamento di macchina da presa…
ho evitato di ricorrere a idee prestabilite, non mi sono affidato
a uno storyboard e sono rimasto lontano da una pianificazione
rigida. Tutti ci siamo lasciati trascinare dall’energia
del luogo e dalla presenza di alcune comparse che, proprio
come richiedeva il film, erano o ex detenuti di quello stesso
carcere oppure, in altri casi, detenuti che stavano ancora
scontando la pena e si trovavano in custodia cautelare. Ma
non si è trattato di un esperienza dura, claustrofobica
o da toglierti il respiro, al contrario: è stato un
momento creativo e stimolante.
Più che una pellicola di genere, Celda 211 è
una tragedia a pieno titolo e nel senso più classico
del termine. La tragedia che ognuno di noi potrebbe vivere
in una situazione estrema come quella in cui viene a ritrovarsi
Juan Oliver. Una storia basata sul fatum, su ciò che
è inesorabile, sul fatto che svoltare un angolo al
posto di un altro potrebbe modificare la tua vita per sempre.
Ma il cuore di questa Celda 211 è il rapporto di amicizia,
in condizioni e circostanze estreme, tra Juan e Malamadre,
due uomini le cui esistenze non potrebbero essere più
distanti, ma che un destino beffardo ha reso vicine nel giro
di poche ore. E che lo stesso destino beffardo ha colpito
con la forza di un uragano. Juan si rende conto che stare
da una parte o dall’altra non è tanto una scelta
morale, quanto una mera congiuntura di circostanze. E che
tutto è relativo, il fatto di aver ucciso qualcuno
non è incompatibile con l’essere integri e comportarsi
come un guardiano della legge non è incompatibile con
l’essere un bastardo. Il viaggio di Juan lo compie anche
lo spettatore. E il motivo per cui lo commuove profondamente
è che gli scava dentro una ferita che fa male come
poche, una ferita che spiega la nostra fragilità e
ci parla di come la vita di ognuno di noi sia appesa ad un
filo”.