Cella 211
Celda 211
Regia
Daniel Monzón
Sceneggiatura
Jorge Guerricaechevarría,
Daniel Monzón
Fotografia
Carles Gusi
Montaggio
Cristina Pastor
Scenografia
Antón Laguna
Costumi
Montse Sancho
Musica
Roque Baños
Interpreti
Luis Tosar, Carlos Bardem, Marta Etura, Alberto Ammann, Antonio Resines, Luis Zahera
Produzione
Álvaro Augustín, Juan Gordon, Borja Pena, Emma Lustres
Anno
2009
Nazione
Spagna, Francia
Genere
drammatico
Durata
104'
Distribuzione
Bolero Film
Uscita
16-04-2010
Giudizio
Media

Il giovane Juan Olivier, al suo primo incarico come secondino in un carcere di massima sicurezza, si presenta al lavoro con un giorno d’anticipo sul primo turno di guardia.
Mentre visita il braccio che rinchiude i detenuti più pericolosi, un frammento di intonaco cade da una parete in ristrutturazione e lo colpisce alla testa. Nel tentativo di rianimarlo, le guardie lo distendono temporaneamente sulla brandina di una cella al momento vuota: la cella 211. Ma non hanno il tempo di aspettare che Juan si riprenda: il carismatico Malamadre, leader indiscusso dei detenuti più pericolosi, è riuscito ad assumere il controllo del braccio e a scatenare una vera e propria rivolta. Alle guardie non resta che togliersi da lì al più presto e mettersi in salvo, abbandonando così l’ignaro Juan al proprio destino in mezzo ai rivoltosi ….
Cella 211 è rappresentante di un cinema “commerciale” di buon livello che è raro vedere in Europa. Un cinema dove si vuole prima di tutto raccontare una storia compatta, avvincente e originale, senza inseguite tesi o retoriche. Quando si racconta bene una storia i temi di cui essa è naturale portatrice emergeranno da soli.
Cella 211 ha un ritmo e un senso del racconto e dei personaggi che è impeccabile, ogni rimando politico e di concetto risulta perfettamente limpido ed omogeneo col resto della vicenda, tanto che ogni tentativo di lettura critica ulteriore rischia di cadere nella vuota speculazione.
[davide luppi]

Note del regista: Daniel Monzón
“Quando mi capitò tra le mani il romanzo Celda 211, lo lessi tutto d’un fiato e capii immediatamente che avrei voluto portare la storia sul grande schermo.
Già l’inizio del racconto era impressionante: introduceva un universo potente, realistico e di grande umanità, e per tutto l’arco narrativo la vicenda si sviluppava mantenendo una tensione a dir poco soffocante, con alcuni colpi di scena memorabili.
Pensandolo in termini cinematografici, rappresentava per me una sfida narrativa di alto livello; ero consapevole che mi avrebbe lasciato poco spazio per poter fare altro se non spogliare la messa in scena di qualunque artificio stilistico e mettere la macchina da presa totalmente al servizio dei personaggi.
Perciò era necessario trovare un gruppo di attori che fossero ineccepibili per quei ruoli. Ora, a film finito, mi è difficile immaginare un cast più solido e appropriato di quello che alla fine abbiamo scelto. Tutti, dai due protagonisti principali, alla gang dei detenuti, al gruppo delle guardie, a ognuna delle comparse, si sono lasciati coinvolgere anima e corpo in questa avventura.
Per quanto Celda 211 fosse un romanzo di finzione, il primo passo per poter ricostruire una storia ambientata in modo realistico in un carcere, era quello di conoscere ciò che si nascondeva in questo mondo, così vicino a tutti noi e al tempo stesso così distante. Al momento di scrivere la sceneggiatura, Jorge Guerricaechevarria e io dovevamo essere consapevoli di ciò che raccontavamo, anche per sapere fino a che punto potevamo eventualmente spingerci nel dire cose non verosimili. Durante tutto l’anno in cui eravamo impegnati con la scrittura, abbiamo cercato di trascorrere quanto più tempo possibile con tutti coloro la cui vita quotidiana fosse strettamente associata a quella del carcere, e abbiamo dunque parlato con i detenuti, le loro famiglie, le guardie carcerarie, gli educatori, cercando di incontrarli in più occasioni e con frequenza.
Tutti ci hanno svelato il loro mondo, dimostrando una sorprendente, per quanto comprensibile, ospitalità. Quando uno si abitua a vivere tra quattro pareti, lontano dal mondo, comunicare con l’esterno può diventare infatti quasi un sollievo…
Alla fine ci siamo resi conto di come l’ambiente chiuso della prigione non sia che un riflesso della stessa società che lo genera, per quanto in forma concentrata. Come ci disse un carcerato nella prigione di Valdemoro il mondo qui dentro è esattamente identico al mondo esterno, l’unica differenza è che è in formato Mp3.
Così, quasi senza aspettarcelo, grazie a questa serie di visite in carcere – parlare di full immersion mi sembra offensivo nei confronti di chi ha passato anche una sola notte lì dentro – la nostra versione della storia stava diventando man mano quasi una sorta di parabola.
La mia prima idea in merito allo stile del film era che dovesse avvicinarsi a uno stile documentaristico. Durante lo sviluppo della sceneggiatura questa mia intenzione si è rafforzata ulteriormente. Questa storia avrebbe potuto scatenare una forza dirompente solo se fossimo riusciti a ricreare nel contesto una parvenza di autenticità. Doveva essere filmata con la prontezza e la determinazione che si riscontrano in una vera rivolta, con la camera a mano e in un luogo che fosse credibile. Dovevamo trovare una vera prigione la cui
energia potesse scorrere dentro tutti noi, nelle nostre viscere.
Grazie all’aiuto delle autorità penitenziarie, siamo riusciti ad avere a nostra disposizione un vecchio carcere chiuso da dodici anni che la nostra équipe artistica è riuscita a riportare in vita con un lavoro di ripulitura e ristrutturazione durato mesi.
Camminando attraverso i corridoi, i cortili, le celle, ogni angolo del carcere provinciale di Zamora, la sceneggiatura è andata via via adattandosi agli spazi, come una sorta di camaleonte. Era come se la disposizione delle sbarre, delle scale, dei muri, delle celle, ci dettassero ogni inquadratura e il potere che quello spazio emanava sembrava quasi che indicasse agli attori gli atteggiamenti e i movimenti da adottare. A volte sembrava che fosse proprio il carcere ad esigere quella messa in scena, riscriveva il ritmo delle sequenze, indicava con voce chiara ogni posizionamento di macchina da presa… ho evitato di ricorrere a idee prestabilite, non mi sono affidato a uno storyboard e sono rimasto lontano da una pianificazione rigida. Tutti ci siamo lasciati trascinare dall’energia del luogo e dalla presenza di alcune comparse che, proprio come richiedeva il film, erano o ex detenuti di quello stesso carcere oppure, in altri casi, detenuti che stavano ancora scontando la pena e si trovavano in custodia cautelare. Ma non si è trattato di un esperienza dura, claustrofobica o da toglierti il respiro, al contrario: è stato un momento creativo e stimolante.
Più che una pellicola di genere, Celda 211 è una tragedia a pieno titolo e nel senso più classico del termine. La tragedia che ognuno di noi potrebbe vivere in una situazione estrema come quella in cui viene a ritrovarsi Juan Oliver. Una storia basata sul fatum, su ciò che è inesorabile, sul fatto che svoltare un angolo al posto di un altro potrebbe modificare la tua vita per sempre. Ma il cuore di questa Celda 211 è il rapporto di amicizia, in condizioni e circostanze estreme, tra Juan e Malamadre, due uomini le cui esistenze non potrebbero essere più distanti, ma che un destino beffardo ha reso vicine nel giro di poche ore. E che lo stesso destino beffardo ha colpito con la forza di un uragano. Juan si rende conto che stare da una parte o dall’altra non è tanto una scelta morale, quanto una mera congiuntura di circostanze. E che tutto è relativo, il fatto di aver ucciso qualcuno non è incompatibile con l’essere integri e comportarsi come un guardiano della legge non è incompatibile con l’essere un bastardo. Il viaggio di Juan lo compie anche lo spettatore. E il motivo per cui lo commuove profondamente è che gli scava dentro una ferita che fa male come poche, una ferita che spiega la nostra fragilità e ci parla di come la vita di ognuno di noi sia appesa ad un filo”.