“In
Captivity i protagonisti vivono un costante pericolo fisico
e psicologico – racconta il regista Roland Joffe –
L’azione si svolge interamente in una cella e questo
fa sì che il coinvolgimento dello spettatore nella
sofferenza dei personaggi aumenti insieme alla paura per la
loro sorte. Essere rapiti è di per sé spaventoso,
ma essere rapiti da uno psicotico intelligente e ossessivo
è assolutamente terrificante… Volevo che Captivity
fosse, veloce, costantemente emozionante e spaventoso.”
Operazione riuscita per 1/3. Contando che il film dura SOLO
85 minuti, vi lascio indovinare a quale terzo mi riferisca.
Jennifer Tree è un’icona della moda. Prigioniera
nelle immagini che tappezzano autobus, metro e palazzi di
New York. Sicura, determinata, nulla sembra scalfire le sue
sicurezze, quando un giorno senza sapere come e perché
si ritrova chiusa in una stanza scura, appena resa familiare
da effetti personali che qualcuno ha prelevato dal suo appartamento.
Nessuna certezza fatta eccezione per la consapevolezza di
non essere completamente sola. Qualcuno infatti la osserva
attraverso un sistema di telecamere e interagisce con lei
attraverso biglietti e prove di resistenza ai limiti della
sopportazione. L’isolamento sembra farsi meno opprimente
quando al di là di un vetro annerito scopre che qualcun
altro è tenuto prigioniero…
Trama ridotta all’osso, e non è solo un modo
di dire, per il ritorno al cinema di Roland Joffe, regista
che dopo un promettente avvio di carriera con Urla nel silenzio
e Mission si è poi adagiato su prodotti commerciali
ed imperfetti come La lettera scarlatta e Super Mario Bros
(regista non accreditato).
Con Captivity, Joffe debutta nel minato campo del thriller
venato da risvolti orrorifici, scritto dal mediocre Larry
Cohen, incapace di un minimo di originalità creativa
tanto da essere costretto a rubare a destra (Saw) ed a sinistra
(Hotel) per mettere insieme uno straccio di struttura narrativa
che punta su una estetica estrema tanto da non negare nulla
alla visione dello spettatore: primissimo piano su un’estrazione
con pinza di un molare; un frappé di interiora e occhi
umani fatto deglutire a forza alla sfortunata protagonista.
Ma come un sufflè cotto troppo velocemente, il film
si sgonfia velocemente, ricadendo su se stesso ed inciampando
su colpi di scena telefonati e facilmente anticipabili da
un pubblico minimamente smaliziato come quello per cui il
film è stato pensato. Unico elemento di interesse,
puramente estetico invero, la presenza nel ruolo di protagonista
di Elisha Cuthbert (vista in 24 per i cultori dei serial),
dotata di presenza fisica ed assenza artistica, che ben si
accompagna allo sfortunato compagno di prigionia lo stoccafisso
Daniel Gilles, già ammirato (?) in Spiderman 2 e Matrimoni
e pregiudizi.
[fabio melandri]