Bruno
D., dirigente in una fabbrica di carta, dopo quindici anni di
fedele servizio, viene brutalmente licenziato a causa di una
ridistribuzione economica, in altre parole di una “terziarizzazione”.
In un primo momento, Bruno non si preoccupa. Per il suo livello
di competenza è convinto di trovare un lavoro simile.
È ancora giovane, ha appena quarant’anni ed un
curriculum di tutto rispetto. Ma dopo tre anni di disoccupazione
ed un matrimonio in avanzato stato di decomposizione, la ricerca
di lavoro si trasforma in una vera e propria guerra, dove tutto
è lecito a partire dalla soppressione degli ostacoli
che si frappongono tra lui ed il suo obiettivo, ovvero un posto
dirigenziale all’Arcadia Corporation.
Tratto dal romanzo ‘The Ax’ di Donald Westlake,
Il cacciatore di teste è
un fanta-sociale – neologismo coniato da Jean-Claude Grumberg,
sceneggiatore insieme al regista Costa-Gravas – atto a
mostrare dove porta la strada dell’individualismo che
si è intrapresa nella vita di oggigiorno.
Bruno, un intenso e straniato Jose Garcia, è un uomo
che come molti si identifica nel proprio lavoro. Privarlo di
questa sua dimensione, significa cancellare la sua identità,
il suo essere persona.
Il cacciatore di teste congelando
in una rappresentazione asettica e controllata i momenti più
drammatici, si sofferma sull’indagine psico-sociologica
dei personaggi, mettendo in scena un’umanità tanto
varia quanto aderente a schemi facilmente riconoscibili da farne
uno specchio dei nostri tempi, quasi un’inchiesta giornalistica
da prima serata televisiva.
Bruno è costretto a regredire ad uno stato primitivo
dell’evoluzione umana ma non in preda ad impulsi sessuali
o perdita di logica, ma proprio in conseguenza di una logicità,
di un pragmatismo che sono le basi del vivere comune quotidiano.
In questo la sua figura richiama quella di Monsieur
Verdoux, che uccideva donne per mantenere la propria
famiglia e quello che aveva duramente conquistato, proprio allo
stesso modo e con le stesse giustificazioni del nostro protagonista.
Costa-Gravas ritorna al cinema impegnato, con un thriller lento,
soffuso, dichiaratamente politico e da una forza sociale dirompente,
capace di cogliere, senza alzare mai la voce, la desolazione
di questi nostri tempi. [fabio
melandri]
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