Cecil
Gaines (Forest Whitaker) è scappato giovanissimo dal
campo di cotone in Georgia in cui lavorava in seguito alla violenta
uccisione del padre da parte del figlio del suo padrone. Dopo
un lungo vagabondaggio inizia a lavorare come maggiordomo per
i bianchi con una maestria che lo porterà addirittura
a trovare impiego presso la Casa Bianca. Lì servirà
per quasi un trentennio dal 1957 al 1986 tutti i presidenti
che vi si succederanno, ma il compito più difficile da
svolgere sarà fuori da quel celebre edificio, nella sua
casa e con la sua famiglia, con una moglie (Oprah Winfrey) troppo
trascurata, un figlio minore che deciderà di partire
per il Vietnam, ma soprattutto nel rapporto conflittuale con
il primogenito (David Oyelowo), che prenderà parte alle
lotte per i diritti civili della popolazione afroamericana e
che non accetterà mai la remissività del padre
nei confronti di un sistema che lo vede sempre e solo come “servitore”.
Cecil stesso capirà con troppo ritardo che dietro l'attivismo
che ha sempre ostacolato nel figlio c'è un fondo di ragione
e nella propria indifferenza nei confronti delle decisioni prese
dai politici che serve c'è anche un po' di colpa.
La storia vera che ha ispirato questo film è davvero
troppo attuale e significativa per lasciare indifferenti: il
protagonista è infatti allo stesso tempo il più
classico dei “self-made man” stelle e strisce e
pur sempre un ingranaggio in un meccanismo che lo lascia al
di là di un' odiosa e invisibile barriera, privandolo
nonostante tutto di una dignità che possa definirsi davvero
tale. Per sfortuna l'approccio di Lee Daniels, che pure aveva
dimostrato una certa personalità nell'affrontare la questione
dell'integrazione e dei diritti da un punto di vista afroamericano
nel precedente e pluripremiato “Precious”,
è dei più canonici e prevedibili, nell'intrecciare
una fiction storica con il più classico degli scontri
padre-figlio.
Basta vedere l'immagine dei vari presidenti succedutisi negli
anni di lavoro di Cecil, che dovrebbero regalare pennellate
inaspettate essendo visti da una prospettiva particolarmente
inusuale e invece rientrano nella più trita e prevedibile
vulgata della fiction americana (Kennedy giovane e idealista,
Nixon furbo e senza scrupoli, Johnson un rozzo texano, fino
all'informale carisma di Reagan) e se i cameo di grandi attori
per interpretarli (Robin Williams, John Cusack, Alan Rickman,
Liev Schreiber) garantirà ancora più attenzione
da parte dell'Academy, purtroppo al testo non aggiunge nulla.
Difficile poi perdonare il prevedibile (e ruffiano, vista l'evidente
ambizione a fare man bassa di statuette dorate) finale consolatorio,
che mostra il vecchio Cecil trovare risposta alle proprie aspirazioni
di giustizia e affrancamento sociale nell'elezione di Obama,
come se i problemi di istruzione, povertà e via dicendo
che affliggono una grande fetta della popolazione afroamericana
(e che Precious
nel 2009 non ometteva) con una bacchetta magica fossero scomparsi.
Il fatto che Daniels sia un autore relativamente giovane e venuto
alla ribalta col Sundance Festival anni fa, invita ad usare
il termine “indipendente” (tra i più abusati
e travisati in qualsiasi circuito artistico attuale) davvero
con maggiore cautela.
Resta comunque la bontà dell'intenzione pedagogica che
sta alla base di quest'opera, che porta alla luce una storia
recente e dolorosa, dai più ignorata, e che si spera
almeno gli spettatori più giovani saranno invogliati
ad approfondire. Nella scena più bella del film, il vecchio
Cecil torna insieme alla moglie a visitare il campo di cotone
dove aveva lavorato e dice: ”Siamo andati dall'altra parte
del mondo a combattere i campi di concentramento, ma li abbiamo
tenuti nel nostro Paese per più di duecento anni”.
Per citare Mandela, il cui biopic in Italia tra l'altro non
trova ancora distribuzione, il cammino verso la libertà
è ancora lungo e forse ha bisogno anche di film così.
[emiliano duroni]
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