Con Beatiful
Country torna alla ribalta il cinema dei diseredati,
dei miserabili, degli stranieri in patria. Binh (Damien Nguyen)
è un giovane vietnamita di madre autoctona e di padre
americano, un bui doi (letteralmente meno della polvere) condannato
all’ostracismo e all’emarginazione dai ricordi
indelebili della feroce guerra americana. Desideroso, ormai
divenuto adulto, di ricongiungersi ai propri cari, giunge
a Saigon dove riesce a scovare la madre che lavora come serva
presso la residenza di un ricca signora. Dopo una breve parentesi
assieme, Binh causa accidentalmente la morte dell’ anziana
signora ed è costretto a fuggire e a separarsi dalla
madre. Prima di partire la madre gli rivela che il padre,
un ex-marines di nome Steve, abita a Houston in Texas. Passando
attraverso una lunga prosopopea (fatta di viaggi sulle carrette
del mare e di internamenti forzosi) Binh giunge in America
e finalmente, con un piccolo gruzzolo faticosamente risparmiato,
riesce a raggiungere e a conoscere il padre Steve (Nick Nolte),
che abita una roulotte sperduta nelle vastità desertiche
di un ranch. Beautiful Country
del norvegese Hans Petter Moland approfondisce il tema degli
amerasiatici, della loro vita d’inferno in un Vietnam
ancora molto lontano dal perdonare gli orrori della guerra,
delle difficoltà spesso insormontabili di raggiungere
un paese che loro sognano, come milioni di altri immigrati,
ma in cui essi hanno pieno diritto di vivere.
Al cinema eravamo al massimo abituati a vedere Gene Hackman
che in Bat-21 tenta di salvare
il figlio prigioniero in Vietnam dopo la disastrosa ritirata
degli americani da Saigon (1975), oppure a parteggiare per
il tenente Rambo impegnato in
una rocambolesca azione solitaria per distruggere e liberare
un intero campo di ex-marines prigionieri. Stavolta la vicenda
si presenta al rovescio cominciando dal Vietnam ed avendo
come protagonista un credibile Damien Nguyen (Binh) che ha
vissuto, sulla sua stessa pelle di uomo prima che di attore,
il viaggio della speranza in Malesia e da lì, la rotta
avventurosa fino agli States. L’impegno civile nel raccontare
il dramma quotidiano dei profughi e le enormi contraddizioni
della società americana sono ben riscontrabili già
a partire dal titolo che va letto in senso biunivoco. Per
Binh che vuole costruirsi un futuro dignitoso non esiste altro
se non seguire la via americana, per suo padre Steve, il “beatiful
country” invece sarà sempre il Vietnam, dove
ha conosciuto la moglie e a cui sono legati, nonostante il
contesto di guerra, i ricordi più vividi della gioventù.
Sia per la regia sia per la sceneggiatura il film di Moland
non è certo impeccabile, mostrandosi lacunoso e poco
verosimile nei plot points, (ad esempio il ritrovamento fortuito
della madre a Saigon) scattoso e poco generoso nei confronti
della straordinaria ricchezza paesaggistica e folkloristica
del Vietnam: non importava essere Coppola o Bertolucci de
L’ultimo Imperatore ma
si potevano evitare molte sequenze stereotipate. Il film risulta
scomposto in quattro macrosequenze: 1) La vita di Binh, “bui
doi” nel Vietnam; 2) La fuga e l’internamento
in Malesia; 3) verso L’America; 4) L’incontro
con il padre.
Bella ed intensa la breve prova di Nick Nolte, intelligente
e cinica (come nella migliore tradizione del cinema americano)
la sua rappresentazione del veterano deluso dal paese per
il quale si è sacrificato perdendo la vista per colpa
di una esplosione. Altra scontata conferma viene da Tim Roth,
nei panni del capitano OH, che conduce la nave dalla Malesia
sino alle coste americane, menefreghista e sprezzante della
vita e del pericolo. Un film consigliabile nonostante le molte
pecche, non soltanto per l’importanza del tema trattato
ma soprattutto per la bravura del cast e il talento del giovane
protagonista. [matteo burioni]