Renzo
Martinelli, piaccia o non piaccia, rappresenta una mosca bianca
nel panorama del cinema italiano. Gira in lingua inglese,
si avvale di un cast internazionale (Donald Sutherland, F.
Abraham, Rutger Hauer, Harvey Keitel, Jane March e Jordi Mollà),
fa uso di effetti speciali digitali (da Vajont
a Barbarossa), punta ad un mercato
assai più ampio della sola penisola italica ed i suoi
film suscitano sempre un vespaio di polemiche, andando a toccare
argomenti dal sapore assai poco privato e molto pubblico:
dalla tragedia del Vajont, al
caso Moro de Piazza delle Cinque Lune,
dalla strage partigiana di Porzus
al conflitto tra Islam ed Occidente de Il
mercante di Pietre.
Con il suo Barbarossa, Martinelli
narra della figura di Alberto da Giussano, figlio di un fabbro
milanese che a metà del 1100 si oppose all’Imperatore
germanico Federico di Hohenstaufen, detto il Barbarossa.
Il film racconta della caduta di Milano ad opera del Barbarossa,
delle sue cento torri distrutte, della popolazione costretta
ad abbandonare la città in sei direzioni diverse, affinchè
non dovessero più rincontrarsi, dell’alleanza
tra i comuni della Padania, come Lodi, Verona, Alessandria,
Ferrara, Parma e la rinata Milano, acerrimi nemici prima,
nel nome della riconquista della libertà dagli oppressori
germanici.
Su questo scenario si staglia la figura di Alberto da Giussano,
della sua travagliata storia d’amore con la bella Eleonora,
vista come strega e preda di visioni dopo essere stata toccata
da un fulmine e sopravvissuta, delle riunioni carbonare a
Pontida delle compagnie della morte, figura, luoghi ed eventi
presi ad icona del movimento politico della Lega Lombarda.
La qual cosa, volente o nolente, rischia di trasformare un
film epico nelle sue intenzioni – “L’avventura
vissuta dalla città di Milano nel dodicesimo secolo
rappresenta un unicum nella Storia d’Italia. Un’avventura
che il cinema, curiosamente, non ha mai tentato di raccontare.
Forse per le difficoltà tecniche che la produzione
di un film sulla sfida tra i milanesi e l’Imperatore
Federico Barbarossa inevitabilmente comportano: eserciti tedeschi
in marcia attraverso i valichi alpini, l’assedio alla
città di Milano e la seguente distruzione con l’abbattimento
delle oltre cento torri, la conclusiva battaglia di Legnano
che vede in campo migliaia di uomini e cavalli e centinaia
di carri falcati, la geniale invenzione di Mastro Guitelmo
che si rivelerà decisiva per la vittoria della Lega
dei Comuni. O, forse, a frenare soggettisti e sceneggiatori,
è stata in tutti questi anni la naturale ritrosia del
cinema italiano nei confronti di un genere epico che pure
negli Stati Uniti ha dato vita a prodotti che hanno ottenuto
un successo internazionale” racconta il regista –
in un mega spot di una parte politica.
La critica militante spingerà il pedale su questo aspetto,
noi cerchiamo di valutare l’opera dal punto di vista
artistico. Martinelli è un regista e sceneggiatore
che non usa i sottotoni e non apprezza molto i non detto e
le sfumature. Il suo cinema si avvicina molto a quello di
Jerry Bruckheimer, dove per cinema si intende azione e narrazione
veloce, fatta di picchi spettacolari e poca riflessione o
approfondimento psicologico. E’ un cinema da blockbuster
che può piacere come non. E se dal punto di vista spettacolare
Barbarossa non delude, confezionato bene nei costumi, le scenografie,
le ricostruzioni storiche di un medioevo lontano, con una
regia che fa uso di una macchina da presa sempre in perenne
movimento, dal punto di vista di dialoghi e recitazione, il
film passa la mano. Raz Degan, nonostante la full immersion
nel cinema accanto ad Ermanno Olmi (Cento
chiodi) si dimostra ancora acerbo e monoespressivo nei
primi piani, mentre più a suo agio nei campi lunghi
e sull’azione. Ma il difetto più evidente della
pellicola risiede nella assoluta mancanza di un crescendo
emozionale e narrativo che dovrebbe esplodere, dopo oltre
due ore di proiezione, nella battaglia finale nella pianura
di Legnano. Invece il film dal punto di vista del tono, del
volume della messa in scena, risulta piatto e monocorde, così
che alla grande battaglia conclusiva si arriva sfatti, stravolti
da troppa carne messa al fuoco e cotta frettolosamente. [fabio
melandri]