“Ma
che razza di uomini siete!? Non c’è nome che
possa definirvi!”
Questo il doloroso, lancinante urlo di Raoul Nuvolini, piccolo
truffatore e maneggino che entra in drammatico contatto con
le divise grigie delle SS naziste. L’urlo spezza la
pacatezza della campagna veneta, la leggerezza di un uomo
che dell’ironia e della dotta citazione ha fatto il
suo stile di vita.
Il panama sulle ventitré, la giacca bianca, Nuvolini,
un bravo Vincenzo Salemme, si trova di colpo di fronte alla
tragedia della vita. Il suo è un piccolo mondo antico,
pieno di accortezze, usanze e modi di pensare di qualcuno
che, nonostante tutto, cerca di cavarsela a buon mercato davanti
al grande rullo compressore della storia.
Sulla canzone da cui il titolo, che è paradigmatica
dell’universo di riferimento del personaggio (universo
material-valoriale, non morale), si chiude amaramente l’avventura
di una vita vissuta (poco) pericolosamente, ma che, nel momento
del suo compimento, si assolutizza a paragone e a monito per
tutti.
La penultima sequenza, quella descritta, e quella seguente,
la conclusiva, sono il punto ingenuamente più alto
di tutta la pellicola di Roberto Cimpanelli, al suo secondo
film, che mette in scena tutta una serie di lunghe banalità
e di incongruenze faticosa, per giungere a quel finale necessario.
Baciami piccina nasce da una
illuminata idea di Sergio Citti, ma si sviluppa come un classico
(nel senso deteriore del termine) film all’italiana.
Una commedia che non fa ridere, un dramma che non porta a
commuoversi. Il semplice e minimalista confronto tra due maschere
del cinema italiano: il brigadiere tutto d’un pezzo,
Neri Marcorè, che, alla vigilia dell’8 settembre
parte da un paesino del Lazio per tradurre un arlecchino dal
cuore buono e dalla citazione nobile (il già citato
Salemme) al tribunale di Venezia. E che proseguirà
indefessamente nonostante tutto, dopo l’armistizio badogliano,
gli rovini addosso senza che nemmeno se ne accorga. E il truffaldino
più per piacere che per necessità, che ama crogiolarsi
nella spensieratezza e nella citazione elevata.
Un confronto che, con la melensa aggiunta di un’immancabile
figura femminile, la fidanzata del brigadiere, non aggiunge
nulla a quel che il cinema italiano ha sempre raccontato di
quel periodo.
Fino a quel finale scarno e doloroso, reso quasi agghiacciante
da una morbida voice-off femminile, che rivive retrospettivamente
“gli anni belli della vita”.
Una pulsione comunicativa così urgente poteva ben non
essere ammantata da moine ed equivoci tipici della commedia
all’italiana, che tra l’altro incidono assai blandamente
sul già poco humor della pellicola. Un incrocio poco
riuscito di dramma all’italiana dai risvolti comici,
che si incarta su due stereotipi di personaggio già
ampiamente codificati dalla cinematografia nostrana.
Niente di nuovo sul fronte occidentale (anche se, quel finale,
ha la violenza di una pallottola). [pietro
salvatori]