“Come
l’energia e la musicalità di un arco in tensione:
così voglio vivere fino alla fine dei miei giorni”.
Cominciamo dalla fine. Con questo incipit al contrario prima
dei titoli di coda si chiude l’ultimo film del sud coreano
Kim Ki-Duk, ormai non più promessa del cinema surrealista
mondiale, ma realtà concreta sempre più consolidata.
Dopo il recente La Samaritana l’artista
orientale torna a girare un film di anime sole, immerse in non
luoghi lontano dalle conformità che rende tutto piatto
e superficiale. Il cinema di Kim Ki-Duk è un cinema di
assenza nonostante sia stracolmo di contenuti e significati,
dove le parole che non servono si annullano l’una con
l’altra, facendo del silenzio e degli sguardi la più
alta espressione di comunicazione non convenzionale.
“Non voglio arrivare a spettatori viziati. Sono loro che
devono venirmi a cercare” ha detto dopo aver scelto personalmente
una (e soltanto una) piccola sala di Seul, dove far vedere L’arco
ai coreani. E i suoi film sono coerenti col suo modo di essere.
Semplice ma mai scontato, coraggioso e provocatorio. Ma soprattutto
poetico, dove questo vada a toccare i sentimenti malinconici
o violenti che siano. Ammette lui stesso che in patria non riscuote
molto successo perché i critici provano ad analizzare
i suoi film esclusivamente con la ragione e mai col cuore, cosa
che invece avviene in Europa.
Una ragazzina di sedici anni vive da dieci su una barca di un
vecchio marinaio che la accudisce e la protegge. Lui lavora
dando spazio e tempo ai pescatori d’altura sul suo battello,
ma l’arrivo di un coetaneo di lei a bordo scatenerà
la gelosia dell’anziano uomo di mare in preda ad un forte
possessivismo.
Il film, girato in appena 17 giorni, vede i tre protagonisti
Han Yeo-Reum, Jeon Sung-Hwan e Seo Ji-Seok, muoversi come marionette
sotto i fili del deus ex machina, su di un set esclusivamente
composto dal mare e dal battello. La capacità intellettuale
di Kim Ki-Duk sta anche nel rappresentare sempre benissimo i
personaggi, donando loro un volto e un comportamento appropriato,
sintomo di attenzione in fase di ideazione e produzione del
concept. L’arte come forma universale è la costante
dei lavori del regista sud coreano, che attraverso le scene
non ci mostra solo una storia e le sue evoluzioni, ma ci consegna
anche le tradizioni, la cultura ed il folklore del suo paese,
dalle cerimonie alle credenze, dai fantasmi ai colori. L’arco
è l’oggetto che ammalia e crea malinconia quando
è strumento musicale, ma che è anche simbolo di
morte e difesa se flesso con frecce acuminate. Il vecchio a
malincuore si renderà pian piano conto che la ragazza
non può fluttuare in eterno, ma deve vibrare, proprio
come le corde di un arco che ha voglia di suoni. Ma prima è
giusto compiere un atto d’amore.
Vedere le persone che amiamo sfuggire dal nostro sguardo è
un supplizio doloroso, sapere che la curiosità le porta
altrove ci lascia attoniti e indifesi. Sfuggono al nostro controllo
proprio perché nessun sentimento si baratta in modo vitalizio,
ma si persegue e si consolida giorno su giorno. Kim Ki-Duk ci
suggerisce che la felicità esiste, anche se intensa e
brevissima, che avere tutto non ci ripagherà di una vita
scomoda. La semplicità sarà il binocolo per scorgere
altre coste e approdare in porti sconosciuti.
Vedere tutto il mondo non sembra necessario, vedere le cose
che ci rimarranno dentro si. L’esilio è un’alternativa
quando il mare e la salsedine sterilizzano i dolori e il sottrarsi
alla gente ci illude di un lungo piacere solitario. Ma isolarsi
amplifica i ricordi e la vita è invece spesso poco più
in la, oltre gli scogli. Al sorgere del sole una città
nuova ci attende verso l’orizzonte. Probabilmente non
saremo soli.
Buon viaggio. [alessandro antonelli]
|
|