L'arco
Hwal
Regia
Kim Ki-duk
Sceneggiatura
Kim Ki-duk
Fotografia
Jang Seung-Baek
Montaggio
Kim Ki-duk
Musica
Kang Eun-Il
Interpreti
Han Yeo-Reum, Jeon Sung-Hwan, Seo Ji-Seok
Anno
2005
Durata
90'
Nazione
Korea
Genere
drammatico
Distribuzione
Mikado
“Come l’energia e la musicalità di un arco in tensione: così voglio vivere fino alla fine dei miei giorni”. Cominciamo dalla fine. Con questo incipit al contrario prima dei titoli di coda si chiude l’ultimo film del sud coreano Kim Ki-Duk, ormai non più promessa del cinema surrealista mondiale, ma realtà concreta sempre più consolidata.
Dopo il recente La Samaritana l’artista orientale torna a girare un film di anime sole, immerse in non luoghi lontano dalle conformità che rende tutto piatto e superficiale. Il cinema di Kim Ki-Duk è un cinema di assenza nonostante sia stracolmo di contenuti e significati, dove le parole che non servono si annullano l’una con l’altra, facendo del silenzio e degli sguardi la più alta espressione di comunicazione non convenzionale.
“Non voglio arrivare a spettatori viziati. Sono loro che devono venirmi a cercare” ha detto dopo aver scelto personalmente una (e soltanto una) piccola sala di Seul, dove far vedere L’arco ai coreani. E i suoi film sono coerenti col suo modo di essere. Semplice ma mai scontato, coraggioso e provocatorio. Ma soprattutto poetico, dove questo vada a toccare i sentimenti malinconici o violenti che siano. Ammette lui stesso che in patria non riscuote molto successo perché i critici provano ad analizzare i suoi film esclusivamente con la ragione e mai col cuore, cosa che invece avviene in Europa.
Una ragazzina di sedici anni vive da dieci su una barca di un vecchio marinaio che la accudisce e la protegge. Lui lavora dando spazio e tempo ai pescatori d’altura sul suo battello, ma l’arrivo di un coetaneo di lei a bordo scatenerà la gelosia dell’anziano uomo di mare in preda ad un forte possessivismo.
Il film, girato in appena 17 giorni, vede i tre protagonisti Han Yeo-Reum, Jeon Sung-Hwan e Seo Ji-Seok, muoversi come marionette sotto i fili del deus ex machina, su di un set esclusivamente composto dal mare e dal battello. La capacità intellettuale di Kim Ki-Duk sta anche nel rappresentare sempre benissimo i personaggi, donando loro un volto e un comportamento appropriato, sintomo di attenzione in fase di ideazione e produzione del concept. L’arte come forma universale è la costante dei lavori del regista sud coreano, che attraverso le scene non ci mostra solo una storia e le sue evoluzioni, ma ci consegna anche le tradizioni, la cultura ed il folklore del suo paese, dalle cerimonie alle credenze, dai fantasmi ai colori. L’arco è l’oggetto che ammalia e crea malinconia quando è strumento musicale, ma che è anche simbolo di morte e difesa se flesso con frecce acuminate. Il vecchio a malincuore si renderà pian piano conto che la ragazza non può fluttuare in eterno, ma deve vibrare, proprio come le corde di un arco che ha voglia di suoni. Ma prima è giusto compiere un atto d’amore.
Vedere le persone che amiamo sfuggire dal nostro sguardo è un supplizio doloroso, sapere che la curiosità le porta altrove ci lascia attoniti e indifesi. Sfuggono al nostro controllo proprio perché nessun sentimento si baratta in modo vitalizio, ma si persegue e si consolida giorno su giorno. Kim Ki-Duk ci suggerisce che la felicità esiste, anche se intensa e brevissima, che avere tutto non ci ripagherà di una vita scomoda. La semplicità sarà il binocolo per scorgere altre coste e approdare in porti sconosciuti.
Vedere tutto il mondo non sembra necessario, vedere le cose che ci rimarranno dentro si. L’esilio è un’alternativa quando il mare e la salsedine sterilizzano i dolori e il sottrarsi alla gente ci illude di un lungo piacere solitario. Ma isolarsi amplifica i ricordi e la vita è invece spesso poco più in la, oltre gli scogli. Al sorgere del sole una città nuova ci attende verso l’orizzonte. Probabilmente non saremo soli.
Buon viaggio. [alessandro antonelli]