Il
potente regno dei Maya che si estendeva su un territorio che
oggi comprende ben cinque stati come Messico, Guatemala, Belize,
Honduras ed El Salvador, ha dominato questi luoghi per oltre
2000 anni, sino al 1517 anno dell’arrivo spagnolo nello
Yucatan che produsse la morte del 90% della popolazione Maya
soprattutto a causa delle malattie portate dagli europei.
Periodo questo in cui si svolge il nuovo kolossal di Mel Gibson
che dopo aver lasciato i sassi di Matera della Passione
di Cristo, si è gettato a capofitto nella foresta
messicana intorno a Catemaco, passando dall’aramaico
della Passione allo Yucateco, principale dialetto Maya ancora
parlato nello Yucatan di Apocalypto.
Ambientato durante la fase più turbolenta della grande
civiltà Maya - società avanzata che eccelleva
nelle arti e nella matematica, dotata di un ingegnoso sistema
di scrittura e profonda conoscenza dell’astronomia benché
prigioniera di pratiche brutali e superstiziose, amante della
guerra che incoraggiava violenza, schiavitù e caos
– Gibson sceglie il particolare per parlare del generale,
puntando la lente della sua macchina da presa su un giovane
indigeno della foresta, Zampa di Giaguaro, fatto prigioniero
dai feroci guerrieri Holcane e condotto al sacrificio per
sedare la bramosia di sangue degli Dei che al contempo hanno
scatenato sulla terra carestie e pestilenze.
Non si può guardare e giudicare Apocalypto
senza fare riferimenti alla Passione
di Cristo, in quanto i punti in comune sono molti e
rilevanti. Innanzitutto il protagonista ha un che di messianico,
di predestinato come Gesù. I segni sono evidenti e
le profezie non tarderanno a manifestarsi come da donna oracolo
annunciato: ”Attento all’oscurità del
giorno. Attento all’uomo che porta il giaguaro…
perché lui ti condurrà alla tua fine.”
Non è un caso infatti che sarà Zampa di Giaguaro
ad assistere allo sbarco spagnolo in terra messicana e nonostante
il suo viaggio sia un viaggio verso un nuovo inizio, si rivelerà
come l’inizio della fine di una civiltà, che
come ricorda la citazione di W. Durant a cappello della pellicola
“una grande civiltà viene conquistata dall’esterno
solo quando si è distrutta dall’interno.”
Lo stesso accadde per l’Impero Romano in fin dei conti.
Attraverso gli occhi del protagonista assistiamo ai segnali
spie di una decadenza già imboccata ma ancora non realizzata
dai suoi stessi protagonisti, con l’opulenza che domina
le grandi città Maya e la povertà, la pestilenza,
la carestia che depauperano la provincia, il serbatoio del
grande motore Maya.
Un viaggio dominato dalla paura, dal caos, dalla violenza
efferata e gratuita che contamina ed infetta uomini, ambienti,
paesaggi, emozioni, tanto che la morte è vissuta quasi
sempre come una liberazione piuttosto che una sventura.
Gibson costruisce una pellicola puntando molto se non tutto
sulla dinamicità dell’immagine, sull’emozione
che questa con le sue panoramiche, corse nella giungle, verticalizzazioni
estreme riesce a creare nello spettatore, innestando la visione
di una mondo violentissimo, nessun dettaglio sanguinolento
ci viene risparmiato, su una trama tanto esile quanto pretestuosa
per la grande macchina spettacolare pensata e sviluppata dal
regista ed i suoi collaboratori.
Inferiore alla Passione di Cristo,
il film alla lunga risulta, soprattutto nel finale, prevedibile
ed a tratti noioso, rimanendo un’opera a suo modo interessante,
coraggiosa e propedeutica a chi avesse la curiosità
di riscoprire una civiltà a cui il mondo moderno è
oggi in parte debitore. [fabio
melandri]
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