Maggio
1945, la guerra è finita e la giovane ebrea Anita (Eline
Powell) torna in Cecoslovacchia dopo essere stata liberata da
Auschwitz. Ad attenderla c'è la zia (Andrea Osvart),
che vive in una casa espropriata ai sudeti (tedeschi ivi emigrati
durante il conflitto) insieme al marito (Antonio Cupo), al piccolo
figlio e al cognato Eli (Robert Sheenan). Subito Anita riceve
le attenzioni dell'incostante Eli ricambiandolo e vive segregata
in casa in attesa dei documenti. Pian piano torna alla vita,
benchè da tutti coloro che la circondano venga spinta
a non fare riaffiorare i terribili ricordi della prigionia,
per non sconvolgere una serenità generale riacquistata
forse con eccessiva facilità. Troppo presto, l'amore
tra Anita ed Eli porterà grandi sconvolgimenti e constringerà
la ragazza a scegliere se continuare a vivere “chiusa”
dentro la sua ritrovata libertà o cercare di costruire
un nuovo futuro scavando nel proprio dolore e viaggiando verso
Gerusalemme.
Nella sua cospicua e piuttosto eterogenea filmografia, Roberto
Faenza ha ormai mostrato quelli che a tutti gli effetti possono
essere considerati temi ricorrenti: lo sguardo attento verso
la Shoah (“Jona che visse
nella balena”), il ritratto biografico
come mezzo per raccontare la Storia (“Marianna
Ucria”, “Prendimi
l'anima”) e la tendenza a privilegiare
la via del melodramma e dei grandi sentimenti. In questa ultima
opera, se nella prima parte possiamo parlare di ricostruzione
degli anni post-conflitto piuttosto prevedibile e da sceneggiato
televisivo, nella seconda la tendenza al dramma sentimentale
prende decisamente troppo il sopravvento, lasciando le ragioni
delle scelte di vita della protagonista in bella vista come
uno slancio ideologico più che interiore.
Il ritorno in Europa di Faenza con tanto di cast internazionale
dopo la seconda e contraddittoria esperienza americana di “Un
giorno questo dolore ti sarà utile”
ha tutte le caratteristiche di un passo falso, nella ricerca
ossessiva di sottofondo di violini e poesia a ogni costo e dispiace
perchè l'idea di riaprire e ripensare “psicanaliticamente”
(come lo Jung di “Prendimi
l'anima”) la tragedia della deportazione
dopo il Conflitto era senza dubbio stimolante.
L'orrore nazista raccontato da un adolescente (come nel capolavoro
di Louis Malle “Arrivederci
Ragazzi”) non porta nuova linfa, ma ahimè
offre troppo spesso il fianco allo sbadiglio, colpa non facilmente
tollerabile, allorchè un argomento ancora così
vivo e cruciale rischia di dare l'impressione della maniera.
[emiliano duroni]
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