Amour
id.

Anno 2012

Nazione Francia, Austria, Germania

Genere drammatico

Durata 105'

Uscita 25/10/2012

distribuzione
Teodora Film

Regia
Michael Haneke
Sceneggiatura
Michael Haneke
Fotografia
Darius Khondji
Montaggio
Monika Willi,
Nadine Muse
Scenografia
Jean-Vincent Puzos
Costumi
Catherine Leterrier
Musica
AA.VV.
Produzione
Les Films Du Losange, X-Filme Creative Pool, Wega Film
Interpreti
Isabelle Huppert,
Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva,
Rita Blanco,
Laurent Capelluto

 

Nessuna concessione, nessuna luce, nessun barlume di speranza. Il titolo dell’ultimo film di Michael Haneke “Amour” è antifrastico. Ovvero esprime un concetto per dimostrare il contrario. In questo caso l’assenza non solo di amore inteso come pulsione sentimentale ma, per estensione, di amore come salvezza del mondo.

Non c’è storia, non c’è intreccio; come di prassi avviene nel cinema di Haneke. Un realismo lucido, freddo e livido ci racconta gli ultimi sussulti di vita di una coppia di anziani (Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva). Lei afflitta da una malattia degenerativa, lui pronto ad accudirla fino alle estreme conseguenze. Nessun dettaglio viene risparmiato: la perdita di memoria, la carrozzina, il pannolone, la paralisi, i deliri sconnessi, le urla strazianti notturne. Cosa è sopportare tutto questo, se non amore?

Eppure durante il susseguirsi delle scene statiche, delle lunghe inquadrature fisse, dei primi piani implacabili (la consueta cifra stilistica del regista) con cui si descrive senza pudore e senza enfasi le tappe di questa ordinaria via crucis, non si registra né tantomeno si percepisce, un’ombra di affetto, uno slancio sentimentale, un qualunque piccolo segnale che richiami il fluire impetuoso della vita. Non c’è sangue, non c’è pathos. C’è solo il tempo che scorre e il riflesso dell’abitudine.

Tutto il film è girato in interni borghesi, la casa di legno, di libri e di polvere dei protagonisti, con pochissime sortite in altri ambienti, sempre rigorosamente chiusi, una sala di concerto, un letto di ospedale. Il sole, la pioggia, la natura, non esistono; tutto si svolge all’interno del punto di vista asfittico dei due vecchi. E così, una sequenza in cui vengono inquadrati lentamente dei paesaggi dipinti su tela diventa l’unico momento del film in cui si accede al mondo esterno. E’ uno squarcio lirico, suggestivo, dolcissimo. Ma non è vita vera, è solo rappresentazione, il vero valore dell’arte: la fuga dalla realtà. Il resto è assuefazione borghese, cattiva, chiusa in se stessa.

La figlia (Isabelle Huppert) poi non capisce, non è in grado di comprendere qualunque situazione non la riguardi. La malattia della madre e la sofferenza del padre la scalfiscono appena, chiusa com’è nella gabbia dei propri fallimenti amorosi. Queste visite stralunate, questi incontri tra genitori e figlia ricordano Ionesco, le persone sedute in un salotto, inquadratura fissa, che parlano senza senso, perché senza senso vivono.

Eppure questa desolazione sorda di un’umanità (di una classe sociale, si sarebbe detto un tempo) atrofizzata nel conformismo e nella consuetudine, incapace di aprirsi al mondo, è attraversata da uno squarcio di luce, da un palpito di amore puro ed è quando lui, dopo l’ennesima, delirante crisi, la soffoca premendo contro la faccia l’enorme cuscino. Venti secondi, le gambe che si tendono, poi tutto è finito. La morte, l’unico atto d’amore possibile. Il film è irritante, sgradevole, lucido, efficace, da guardare di pomeriggio. Nel genere un capolavoro. [paolo zagari]