Nessuna
concessione, nessuna luce, nessun barlume di speranza. Il
titolo dell’ultimo film di Michael Haneke “Amour”
è antifrastico. Ovvero esprime un concetto per dimostrare
il contrario. In questo caso l’assenza non solo di amore
inteso come pulsione sentimentale ma, per estensione, di amore
come salvezza del mondo.
Non c’è storia,
non c’è intreccio; come di prassi avviene nel
cinema di Haneke. Un realismo lucido, freddo e livido ci racconta
gli ultimi sussulti di vita di una coppia di anziani (Jean-Louis
Trintignant ed Emmanuelle Riva). Lei afflitta da una malattia
degenerativa, lui pronto ad accudirla fino alle estreme conseguenze.
Nessun dettaglio viene risparmiato: la perdita di memoria,
la carrozzina, il pannolone, la paralisi, i deliri sconnessi,
le urla strazianti notturne. Cosa è sopportare tutto
questo, se non amore?
Eppure durante il susseguirsi
delle scene statiche, delle lunghe inquadrature fisse, dei
primi piani implacabili (la consueta cifra stilistica del
regista) con cui si descrive senza pudore e senza enfasi le
tappe di questa ordinaria via crucis, non si registra né
tantomeno si percepisce, un’ombra di affetto, uno slancio
sentimentale, un qualunque piccolo segnale che richiami il
fluire impetuoso della vita. Non c’è sangue,
non c’è pathos. C’è solo il tempo
che scorre e il riflesso dell’abitudine.
Tutto il film è
girato in interni borghesi, la casa di legno, di libri e di
polvere dei protagonisti, con pochissime sortite in altri
ambienti, sempre rigorosamente chiusi, una sala di concerto,
un letto di ospedale. Il sole, la pioggia, la natura, non
esistono; tutto si svolge all’interno del punto di vista
asfittico dei due vecchi. E così, una sequenza in cui
vengono inquadrati lentamente dei paesaggi dipinti su tela
diventa l’unico momento del film in cui si accede al
mondo esterno. E’ uno squarcio lirico, suggestivo, dolcissimo.
Ma non è vita vera, è solo rappresentazione,
il vero valore dell’arte: la fuga dalla realtà.
Il resto è assuefazione borghese, cattiva, chiusa in
se stessa.
La figlia (Isabelle Huppert)
poi non capisce, non è in grado di comprendere qualunque
situazione non la riguardi. La malattia della madre e la sofferenza
del padre la scalfiscono appena, chiusa com’è
nella gabbia dei propri fallimenti amorosi. Queste visite
stralunate, questi incontri tra genitori e figlia ricordano
Ionesco, le persone sedute in un salotto, inquadratura fissa,
che parlano senza senso, perché senza senso vivono.
Eppure questa desolazione
sorda di un’umanità (di una classe sociale, si
sarebbe detto un tempo) atrofizzata nel conformismo e nella
consuetudine, incapace di aprirsi al mondo, è attraversata
da uno squarcio di luce, da un palpito di amore puro ed è
quando lui, dopo l’ennesima, delirante crisi, la soffoca
premendo contro la faccia l’enorme cuscino. Venti secondi,
le gambe che si tendono, poi tutto è finito. La morte,
l’unico atto d’amore possibile. Il film è
irritante, sgradevole, lucido, efficace, da guardare di pomeriggio.
Nel genere un capolavoro.
[paolo
zagari]