Un
uomo (Robert Redford) solca in solitaria l'Oceano Indiano con
la sua barca a vela, quando inopinatamente un container abbandonato
chissà da chi colpisce la chiglia facendo imbarcare acqua.
Privato del computer di bordo e della radio, il navigante dovrà
affidarsi alla sola bussola e alle correnti per dirigere la
sua navigazione andando incontro a due terribili tempeste che
finiranno per danneggiare irrimediabilmente l'imbarcazione.
Quando tutto davvero sembra perduto, a contrastare il Fato resta
comunque l'indomabile istinto di sopravvivenza di ogni essere
umano.
Il bel thriller ambientato nel mondo della finanza “Margin
Call”, recente esordio cinematografico
di J.C. Chandor, è apparentemente quanto di più
distante da questo coraggioso progetto, con un solo protagonista
perso tra i flutti senza neppure un solo dialogo a sostenere
la trama. In realtà, anche questo a ben vedere portebbe
essere catalogato come un thriller atipico, in cui al maniaco
di turno si sostituisce l'imprevedibilità degli elementi,
laddove nel precedente c'era il cinismo del mondo finanziario.
La messa in scena sceglie una veste più che essenziale,
che rifugge i grandi effetti e la spettacolarizzazione, se si
eccettuano le riprese della tempesta effettuate con la computer
grafica, puntando tutto sul carisma di Robert Redford.
E al coraggio del regista può tenere testa sicuramente
la voglia di mettersi in gioco dell'ultrasettantenne star hollywoodiana,
che indubbiamente sa ancora essere originale nella scelta dei
copioni e non solo nelle vesti di cineasta o ideatore del più
grande festival di cinema indipendente del mondo. Il suo compito
non è certo facile, visto che all'inesorabilità
degli elementi sul protagonista si affianca un certo sadismo
del regista sull'interprete, che indugia su ogni sua azione
privandolo finanche del più semplice soliloquio per esprimere
le proprie emozioni (si registra in effetti solo la più
classica delle parolacce strillata ai cieli e alle acque dopo
un'ora di svariate sfortune).
Forse la più grande originalità e allo stesso
tempo limite del film sta proprio nel voler caratterizzare il
meno possibile l'unico personaggio in scena, che diviene così
una sorta di everyman di rothiana memoria alle prese con la
grande difficoltà del soppravvivere. Il simbolismo della
storia ne esce indubbiamente rafforzato, ma alla lunga si rischia
di perdere il coinvolgimento del pubblico di fronte a una figura
che si rialza inevitabilmente di fronte agli scherzi del destino
e resta metaforicamente a metà tra Giobbe e Willy il
Coyote. Nella seconda parte in particolare, la vicenda appare
prevedibile e tirata un po' per le lunghe nella sua inesorabilità
negativa (e forse anche troppo debitrice ad altri film di genere
come “Cast Away”)
e viene solo da attendere la resa o la salvezza definitiva.
La figura della “nave senza nocchiero in gran tempesta”
è sin dall'antichità una delle più usate
per esprimere un disagio e un'inadeguatezza più grandi,
che riguardano la vita e la società. Il fatto che questo
film segua proprio una disamina spietata del mondo economico
attuale resta forse la più bella intuizione di Chandor,
che volendo dire meno del dovuto in realtà dice molto
di più. [emiliano duroni]
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