Di
questi tempi, un posto a decine di metri dal palcoscenico
di un concerto in uno stadio può arrivare a costare
diverse centinaia di euro; forse sarà passato anche
questo dettaglio nella testa di chi ha pensato di seguire
la più celebre band del pianeta con il più grande
equipaggiamento per riprese in 3d mai utilizzato per un singolo
evento. Se è vero che nulla renderà mai giustizia
delle emozioni vissute in diretta, è altrettanto chiaro
che la nitidezza dei suoni e il realismo delle immagini messi
a disposizione dalle nuove tecnologie possono offrire più
di una semplice ripresa di un live.
Così questo film vuole essere semplicemente la cronaca
iper-reale di un concerto della fase finale del tour “Vertigo”del
2006 della band irlandese, che toccò i principali Paesi
dell’America Latina riscuotendo un entusiastico successo.
Gli U2 d’altra parte sembrano il gruppo più adatto
ad un esperimento del genere, vuoi per la costante attenzione
alle sperimentazioni e al connubio tra visual art e rock,
vuoi perché nei momenti migliori della loro musica
sono riusciti a stimolare una sorta di terza dimensione percettiva.
Così, immaginare gli spazi aperti di “Where the
streets have no name” in 3D è davvero una coerente
aggiunta ad un discorso iniziato tanto tempo fa e la giusta
realizzazione di una musica che già da sola aveva saputo
esprimere qualcosa in più. Allo stesso modo, l’intensità
semplice di Miss Sarajevo incorniciata da uno stadio interamente
illuminato dai telefonini (a fare le veci degli accendini
di un tempo) sembra esprimere il concetto che tutto cambia
nella forma, lasciando intatta la sostanza di passione e intensità.
Gli U2 sono alla loro seconda esperienza cinematografica a
distanza di vent’anni dall’altrettanto ambizioso
“Rattle and Hum”,
che si proponeva di ricollegare la band alla grande iconografia
americana da Elvis a B.B.King, accompagnandoli dalla composizione
in studio fino al tour mondiale. Forse qui si vola più
basso, ma di sicuro le idee sono più chiare. La regia
è stata affidata a Catherine Owens, curatrice della
parte visiva degli ultimi tour della band, e a Mark Pellington,
regista con un discreto curriculum (Arlington
Road, The Mothman Profecies), ma soprattutto cresciuto
nella palestra dei videoclip al servizio delle più
grandi star internazionali.
In questa maniera, non c’è soluzione di continuità
tra l’immagine che milioni di fan hanno visto in giro
per il mondo e quello che arriva in sala. I grandi successi
della band da “Beautiful Day” a “One”
a “New year’s day”, fra cotanto dispendio
di mezzi, paradossalmente non vengono filtrati da nessuna
lente, ma semplicemente amplificati, ingranditi, colorati
talvolta all’inverosimile, ma con al centro sempre il
genio di quattro musicisti unici e non la loro sfolgorante
cornice. Tutto ciò senza gli inconvenienti del live
come il caldo, i rumori, la sporcizia, il fango che furono
invece i protagonisti, quarant’anni or sono, di quel
film-documentario su Woodstock, che è l’illustre
antenato e il lontanissimo e quasi insospettabile progenitore
di questo gigantesco caleidoscopio. Dire che le cose siano
migliorate è forse avventato, in compenso la noia è
ancora tenuta a debita distanza.
[emiliano duroni]