Un
enorme dirigibile bianco a forma di pesce si insinua con la
fascinosa e titubante lentezza dell’esploratore attraverso
la foresta pluviale della Guyana. Protagonisti assoluti dell’impresa
un ingegnere aeronautico inglese, Graham Dorrington, che come
un novello Leonardo è ansioso di varcare i limiti dell’umana
conoscenza e l’infaticabile Werner Herzog che, con la
sua cinepresa, a quel tipo di appuntamenti con la storia non
è mai arrivato in ritardo.
Ancora una volta, il cinema del maestro tedesco si fonde con
la monumentalità dell’impresa, in un film-documentario
dove anziché privilegiare la storia, si enfatizza la
sublimità del momento epico, con i suoi disastrosi fallimenti
e la sua gloriosa ascesa. White Diamond
rappresenta il sogno avventuroso di un Fiztcarraldo che non
ha bisogno di essere interpretato dalla magniloquenza di un
Kinskj, perché è già reale, o perlomeno
reali sono i tentativi di porlo in essere. Herzog, ci rivela
una realtà (quella degli amerindi e del loro sacro habitat)
con gli occhi ingenui e votati alla purezza di un Kasper Hauser
o di un “buon selvaggio”. L’approccio alla
conoscenza è primitivo, vergine come l’ambiente
che descrive e curiosamente disinteressato, coinvolge tutto:
dagli alberi alti sessanta metri che oscurano il cielo con le
loro fronde, alle iguane impettite che paiono sfidare il sole,
al volo circolare dei rondoni attorno alle spumeggianti pareti
di una cascata. Alla contemplazione mistica della natura, che
Herzog recupera da quella Kultur germanica dell’Ottocento
che guardava al Wald (selvaggio, incontaminato) piuttosto che
al razionalismo laico di stampo illuminista diffusosi dalla
Francia pressochè a tutta l’Europa, si unisce l’interesse
per la vita indigena. Quando l’indigeno Yeap, che non
mai volato in vita sua, viene invitato a bordo del dirigibile
da Dorrington in segno di amicizia, l’immobilismo temporale
delle credenze millenarie si congiunge con la febbrile ansia
dell’uomo civilizzato di spingersi oltre e di dominare
ciò che prima era ignoto, regalando allo spettatore un
momento di romanticismo e di estasi ineguagliabile. Un opera
di “interminati spazi e sovrumani silenzi” che possiede
la fresca e poetica intimità di una nuova alba (cinematografica?)
così meravigliosamente svelata da una poesia di Sandro
Penna: “Come è forte il rumore dell’alba!
Fatto di cose più che di persone. Lo precede talvolta
un fischio breve, una voce che lieta sfida il giorno. Ma poi
nella città tutto è sommerso. E la mia stella
è quella stella scialba, mia lenta morte senza disperazione.“
[matteo
burioni]
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