Dal
23 al 28 febbraio in programma al Cinema
Trevi (vicolo del puttarello, 25 –
Roma) la rassegna “Il neorealismo
amaro di Giuseppe De Santis”, una
riflessione ironica quanto amara del suo
essere uomo di cinema in un mondo dello
spettacolo a lui sempre più alieno.
Il
programma
giovedì
23 | h. 17.00
Ossessione
(1943)
Regia:
Luchino Visconti; soggetto: ispirato liberamente
al romanzo Il postino suona sempre due
volte di James Cain; sceneggiatura: L.
Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis,
Gianni Puccini; fotografia: Aldo Tonti,
Domenico Scala; scenografia: Gino Franzi;
costumi: Maria De Matteis; musica: Giuseppe
Rosati; montaggio: Mario Serandrei; interpreti:
Massimo Girotti, Clara Calamai, Juan De
Landa, Dhia Cristiani, Elio Marcuzzo,
Vittorio Duse; origine: Italia; produzione:
I.C.I. - Industrie Cinematografiche Italiane;
durata: 140’
«Dal
romanzo Il postino suona sempre due volte
(1934) di James Cain: malmaritata a un
uomo più vecchio di lei, una donna
induce un giovane vagabondo di cui è
diventata l’amante a uccidere il
consorte in un incidente automobilistico
truccato. Qualcosa di più di un
film: una bandiera, un manifesto, un simbolo.
Memorabile esordio di Visconti, aprì
la strada al neorealismo postbellico,
agganciò il cinema italiano alla
cultura europea della crisi, fu la scoperta
di un’Italia amara, fatta con violento
pessimismo, tramite il filtro del romanzo
nordamericano e del realismo francese
di J. Renoir. Nonostante difetti, eccessi,
compiacimenti estetizzanti, un ammirevole
esempio di fusione tra realismo e decadentismo.
[…] Marcuzzo (nel film lo Spagnolo)
fu impiccato per errore con il fratello
Armando (e seppelliti vivi) nell’aprile
1945 da una banda di partigiani, comandata
dal sanguinario Gino Simionato detto il
Falco che, con altri 3, fu indagato e
prosciolto nel ’54 per amnistia.
Il romanzo di Cain fu filmato dal francese
P. Chenal (1939) e dagli americani T.
Garnett (1946) e B. Rafelson (1981)»
(Morandini). Oltre a firmare la sceneggiatura,
De Santis è stato aiuto regista
del film. «Doveva chiamarsi Palude
e non Ossessione. […] Palude stava
a significare, secondo la moda di quei
tempi, la vischiosità morale di
tutti i protagonisti della storia e la
loro cupa, stagnante tragedia che maturava
all’ombra di loschi interessi e
di una morbosa sessualità. […].
Nessuno l’ha mai scritto a proposito
di Ossessione, ma chi per primo ci aveva
parlato di quei luoghi e proposto di ambientarvi
il racconto del film, era stato Libero
Solaroli, mio insegnante di tecnica della
produzione al Centro Sperimentale di Cinematografia
e che io avevo fatto conoscere a Visconti
per indurlo ad affidargli l’organizzazione
di Palude» (De Santis).
h
19.30
Il
sole sorge ancora (1946)
Regia:
Aldo Vergano; soggetto: Giuseppe Gorgerino;
sceneggiatura: Guido Aristarco, Giuseppe
De Santis, Carlo Lizzani, A. Vergano;
fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Fausto
Galli; costumi: Anna Gobbi; musica: Giuseppe
Rosati; montaggio: Gabriele Varriale;
interpreti: Elli Parvo, Lea Padovani,
Vittorio Duse, Cristina Almirante, Checco
Rissone, Carlo Lizzani; origine: Italia;
produzione: A.N.P.I. (Associazione Nazionale
Partigiani d’Italia); durata: 90’
«Dopo
l’8 settembre 1943, un militare
(Duse) abbandona le armi e torna al suo
paese lombardo, occupato dai tedeschi.
S’infatua della padrone del forno
(Parvo) e sembra propenso a fare la bella
vita, ma una giovane operaia antifascista
(Padovani) e i compaesani impegnati nella
Resistenza lo inducono a scegliere la
lotta partigiana. Commissionato dall’Anpi,
è uno dei capisaldi del neorealismo
e l’unico film di chiara ispirazione
marxista prodotto in Italia sulla guerra
di Liberazione» (Mereghetti). «Sarà
[…] con stupore che il nostro pubblico
verrà a trovarsi di fronte a personaggi
inconsueti, nuovi per il cinema italiano,
a personaggi non già idealizzati
e recanti le stimmate degli eroi ad ogni
costo, ma posti, questa volta, sul gradino
naturale di un’esistenza quotidiana
ricca di contraddizioni, uomini e donne,
insomma, con i loro vizi e le loro virtù.
Gli stessi attori scelti per interpretare
questi ruoli sono stati costretti a spogliarsi
della loro abituale quanto convenzionale
maschera. Massimo Serato, nelle vesti
di un giovane ufficiale tedesco, Elli
Parvo in quelle di una donna sensuale
e corrotta, e tutti gli altri, da Lea
Padovani, a Vittorio Duse, a Checco Rissone,
hanno accettato di buon grado l’interessante
trasformazione che pure li costringeva
a non lievi sacrifici di vanità»
(Giuseppe De Santis).
h
21.15
Donne
proibite (1954)
Regia.
Giuseppe Amato; soggetto: dalla commedia
Vita nuova di Bruno Paolinelli; sceneggiatura:
Giuseppe Mangione, Giuseppe De Santis,
Elio Petri, Gianni Puccini, B. Paolinelli,
Cesare Zavattini, Siro Angeli, Gigliola
Falluto; fotografia: Anchise Brizzi; scenografia:
Virgilio Marchi; costumi: Elio Costanzi;
musica: Renzo Rossellini; montaggio: Gabriele
Varriale; interpreti: Linda Darnell, Valentina
Cortese, Lea Padovani, Giulietta Masina,
Lilla Brignone, Anthony Quinn; origine:
Italia; produzione: G. Amato; durata:
89’
A causa della
chiusura della casa di tolleranza dove
lavorano, delle prostitute devono decidere
del loro future e compiono scelte diverse.
«Melodramma a tinte fosche […]:
più abile come produttore che come
regista, Amato mescola peccato e redenzione,
moralismo e riflessione sociale, lacrime
e speranze in un film convenzionale ma
efficace» (Mereghetti).
venerdì
24 | h 17.15
Giorni
di gloria (1945)
Regia:
Luchino Visconti, Marcello Pagliero, Giuseppe
De Santis, Mario Serandrei; commento:
Umberto Calosso, Umberto Barbaro; fotografia:
Umberto Della Valle, De West, Gianni Di
Venanzo, Angelo Jannarelli, Giorgio Lastricati,
Novarro, Giovanni Puccini, Reed, Massimo
Terzano, Giovanni Ventimiglia, Michel
Werdier, Vittoriano, Manlio, Caloz e il
contributo dei tecnici del C.L.N. di Milano;
musica: Costantino Ferri; montaggio: M.
Serandrei, Carlo Alberto Chiesa; origine:
Italia; produzione: Titanus, A.N.P.I.
(Associazione Nazionale Partigiani d’Italia);
durata: 71’
«Il film
è la rievocazione dei mesi concitati
e drammatici che portarono alla liberazione
d’Italia: combattimenti partigiani
contro gli occupanti, rastrellamenti,
rappresaglie nazifasciste, tedeschi che
si arrendono, attività clandestine
nelle città, lanci con paracadute
di rifornimenti ai reparti partigiani;
e infine la mobilitazione e gli scioperi
che preannunciarono l’insurrezione
e la liberazione, ad opera dei reparti
partigiani del Comitato di Liberazione
Nazionale, di alcune città del
Nord: Genova, Torino, Milano, Venezia.
Due episodi sono sviluppati con particolare
evidenza: il processo a Pietro Caruso,
cronaca drammatica del procedimento contro
l’ex questore di Roma, uno dei compilatori
degli elenchi di ostaggi da trucidare
alle Fosse Ardeatine, e il ritrovamento,
la ricomposizione e il riconoscimento
dei corpi dei 335 esseri umani trucidati
dai nazisti e rimasti sepolti per mesi
sotto tonnellate di tufo nelle Ardeatine.
Di particolare intensità sono anche
alcune interviste a donne parenti delle
vittime» (Marco Grossi). «Film
a carattere collegiale, Giorni di gloria
pur essendo una testimonianza vivida della
Resistenza, non ha avuto […] accoglienze
entusiastiche dal pubblico, anche se generalmente
la critica è stata rispettosa nei
suoi confronti. Oggi, in assenza di coloro
che si sono impegnati nel progetto, non
disponiamo di notizie precise e particolareggiate
sulla genesi di un film che è stato
un work in progress, firmato da tre registi,
Giuseppe De Santis, Luchino Visconti,
Marcello Pagliero. Perciò è
difficile stabilire a quale punto del
percorso sia intervenuto De Santis per
svolgere funzioni di coordinamento e girare
qualche raccordo e alcune scene visibilmente
ricostruite. Eppure, gli analisti e gli
studiosi commetterebbero un errore se
considerassero ininfluenti, nella formazione
artistica di De Santis, i due film che
preludono all’esordio con Caccia
tragica (1947): Giorni di gloria, appunto,
e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo
Vergano, in cui sono finanche rintracciabili
qua e là tratti stilistici ed espressivi
tipicamente desantisiani» (Argentieri).
Giuseppe De Santis dichiara di aver girato
la sequenza ricostruita di un assalto
dei GAP nel quartiere Tiburtino di Roma
e le interviste ai testimoni nell’episodio
delle Fosse Ardeatine.
h
19.00
Roma
ore 11 (1952)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura:
Cesare Zavattini, Basilio Franchina, G.
De Santis, Rodolfo Sonego, Gianni Puccini;
fotografia: Otello Martelli; scenografia:
Leon Barsacq; costumi: Elio Costanzi;
musica: Mario Nascimbene; montaggio: Gabriele
Varriale; interpreti: Lucia Bosé,
Carla Del Poggio, Maria Grazia Francia,
Delia Scala, Elena Varzi, Lea Padovani;
origine: Italia/Francia; produzione: Transcontinental
Film, Titanus; durata: 98’
Una ditta cerca
una dattilografa e moltissime ragazze
rispondono all’annuncio. La scala
crolla e una di loro muore. «In
questa piccola folla il De Santis ha naturalmente
individuato e sottolineato alcune figurine,
dandocene sfondi e chiaroscuri. Nel film,
come si usa dire, corale, spicca così
questo piccolo coro; e gli episodi s’intersecano,
ora amari, ora sardonici, talvolta con
uno spento sorriso. Film composito, calcolato,
previsto, con un’abilità
talvolta sorprendente; e sono questa sicurezza
e questa bravura a limitare l’umanità
e il valore del film. Che è affastellato
e al tempo stesso ordinato; con intarsi
e imprevisti da caleidoscopio, e al tempo
stesso chiarissimo; con toni d’arida
cronaca, e qualche più profondo
respiro» (Gromo). «Le due
versioni dello stesso fatto di cronaca
(De Santis e il Genina che segue [Tre
storie proibite]) sono forse, nella loro
capacità di ignorarsi, la prova
maggiore di quanto vi è stato di
grandezza nel cinema italiano tra gli
anni Trenta e gli anni Settanta»
(Germani).
h
21.00
Caccia
tragica (1947)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Carlo Lizzani, Lamberto Rem-Picci; sceneggiatura:
Michelangelo Antonioni, Umberto Barbaro,
G. De Santis, C. Lizzani, Cesare Zavattini;
fotografia: Otello Martelli; scenografia:
Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica:
Giuseppe Rosati; montaggio: Mario Serandrei;
interpreti: Vivi Gioi, Andrea Checchi,
Carla Del Poggio, Massimo Girotti, Vittorio
Duse, Checco Rissone; origine: Italia;
produzione: A.N.P.I. (Associazione Nazionale
Partigiani d’Italia), Dante Film;
durata: 90’
«Nell’immediato
dopoguerra, un camion sul quale viaggiano
i novelli sposi Michele e Giovanna e il
ragioniere di una cooperativa agricola,
incaricato di portare in sede quattro
milioni di lire, viene assalito da un
manipolo di banditi. I malviventi bloccano
la strada con una finta ambulanza, uccidono
l’autista e il ragioniere, si impossessano
del denaro e prendono in ostaggio la ragazza.
Alberto, il capobanda, è un disoccupato
reduce di guerra; Daniela è la
sua amante, una ex collaborazionista soprannominata
Lili Marlene. I contadini della cooperativa
si uniscono ai carabinieri per aiutarli
a catturare i malviventi» (Marco
Grossi). «In Caccia tragica De Santis
fa risaltare una novità di stile
che rimarrà fra le sue prerogative,
la padronanza della tecnica, e sul piano
del contenuto mescola l’“avventura”
con la realtà italiana, suscitando
il rimprovero di qualche critico che considerava
questa commistione troppo audace o addirittura
fuori luogo» (Gambetti). Nastro
d’Argento per la miglior regia (ex-aequo
con Alberto Lattuada per Il delitto di
Giovanni Episcopo) e per la miglior attrice
(Vivi Gioi).
sabato
25 | h 17.00
Giorni
d’amore (1954)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura:
Libero de Libero, G. De Santis, Elio Petri,
Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli;
scenografia e costumi: Domenico Purificato;
musica: Mario Nascimbene; montaggio: Gabriele
Varriale; interpreti: Marcello Mastroianni,
Marina Vlady, Angelina Longobardi, Dora
Scarpetta, Giulio Calì, Fernando
Jacovolta; origine: Italia; produzione:
Excelsa Film; durata: 102’
«Due
giovani contadini di Fondi, Angela e Pasquale,
sono promessi sposi da alcuni anni. Per
tradizione le nozze devono celebrarsi
con tutta solennità e richiedono
una notevole spesa economica, ma le famiglie
dei fidanzati sono povere e il matrimonio
viene rimandato di anno in anno. Un giorno
Pasquale deicide di ricorrere a un sotterfugio,
con la complicità mascherata dei
parenti entrambi: fingerà di rapire
Angela, in modo che il matrimonio diverrà
inevitabile e le nozze saranno celebrate
in fretta e con semplicità. Il
piano concordato di nascosto tra le famiglie
viene attuato» (Marco Grossi). «Tre
anni dopo Due soldi di speranza (1952)
di Renato Castellani – un capolavoro
che pochi hanno voluto riconoscere come
tale – e un anno dopo Pane, amore
e fantasia (1953) di Luigi Comencini –
una simpatica commedia rusticana che nelle
intenzioni del regista avrebbe dovuto
essere anche aspra […]. Peppe De
Santis, non riuscendo a condurre in porto
progetti più ambiziosi, si inserì
con molta autonomia nel filone che alcuni
critici della sua parte vollero chiamare
“neorealismo rosa”. Ne risultò
un film spregiudicato e allegro, di una
vitalità e di un colore raramente
eguagliati nel nostro cinema. Un colore
che non era solo quello del Ferraniacolor,
che unicamente in questo caso, a mia memoria,
fu usato in modo così controllato
e personale, sperimentale e autoriale;
e per averne conferma basta confrontarlo
con gli altri prodotti di quegli anni,
dal pioneristico Totò a colori
(1952) di Steno a La nave delle donne
maledette (1953) di Raffaello Matarazzo»
(Fofi). Nastro d’Argento 1954-1955
a Marcello Mastroianni per il miglior
attore protagonista.
h
19.00
Riso
amaro (1949)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Carlo Lizzani, Gianni Pucini; sceneggiatura:
Corrado Alvaro, G. De Santis, C. Lizzani,
Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini;
fotografia: Otello Martelli; scenografia:
Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica:
Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele
Varriale; interpreti: Vittorio Gassman,
Silvana Mangano, Raf Vallone, Doris Dowling,
Checco Rissone, Nico Pepe; origine: Italia;
produzione: Lux Film; durata: 109’
«Francesca,
indotta dal suo amante Walter, ruba una
preziosa collana a un cliente dell’albergo
in cui lavora come cameriera. Per sfuggire
alla polizia si unisce alle mondine che
stanno partendo in treno per la stagione
lavorativa. Tra le mondariso c’è
anche Silvana, un’affascinante ragazza
con la testa piena di sogni. Silvana scopre
la vera identità di Francesca e
riesce a impossessarsi della collana rubata.
Walter, per riprendere la collana, cerca
di sedurre Silvana, che aveva stretto
una relazione con Marco, un giovane sergente
in servizio nei pressi della risaia»
(Marco Grossi). «Le ragioni per
le quali Riso amaro resta un caposaldo
emblematico del periodo più fertile
del cinema italiano – che possono
aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno
del neorealismo – sono assai forti.
Fin dalla sua nascita il neorealismo sollevò,
soprattutto tra i critici italiani, il
problema di quanto fosse un movimento
unitario, in che misura e perché
autori tanto eterogenei […] e di
umori così vari fossero visti dalla
critica di tutto il mondo come parte di
una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato
Luchino Visconti al sanguigno De Santis,
dal cronachistico Roberto Rossellini al
patetico e appassionato Vittorio De Sica.
E molti se lo domandano ancora oggi. Proprio
Riso amaro (vi giocano la favola e la
tranche de vie, il romanzo e il grand
guignol, il corale e l’individuale)
sembra raccogliere in sé alcune
delle aporie più lampanti del neorealismo.
Ma se Riso amaro fosse invece un pastiche
sia pure geniale, il frutto di una semplice
giustapposizione di motivi diversi? Se
poi il neorealismo non esistesse, come
taluni hanno voluto ribadire in questi
ultimi decenni? […] Il rischio di
una verifica di tali ipotesi su Riso amaro
è alto, ma l’omogeneità
del fenomeno Riso amaro è un fatto
certo. Avrebbe altrimenti avuto, questo
film, la capacità deflagrante –
esso sì – di una bomba, se
fosse soltanto una aggregazione aritmetica
degli elementi che lo compongono? Riso
amaro, insomma, come la più suggestiva
metafora del neorealismo storico»
(Lizzani). Nomination all’Oscar
a Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani per
il miglior soggetto.
h
21.00
Non
c’è pace tra gli ulivi (1950)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Gianni Puccini; sceneggiatura: Libero
de Libero, Carlo Lizzani, G. De Santis,
G. Puccini; fotografia: Piero Portalupi;
scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna
Gobbi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio:
Gabriele Varriale; interpreti: Raf Vallone,
Lucia Bosè, Folco Lulli, Maria
Grazia Francia, Dante Maggio, Michele
Riccardini; origine: Italia; produzione:
Lux Film; durata: 103’
«Il pastore
Francesco Dominici, tornato dalla guerra,
cerca invano lavoro nella sua terra segnata
dagli eventi bellici. Una notte, per vendicarsi
di un furto di pecore subito dalla sua
famiglia e perpetrato dal losco Agostino
Bonfiglio, arricchitosi con la borsa nera
e l’usura, va a riprendersi le sue
pecore con l’aiuto della sua innamorata
Lucia e della sorella Maria Grazia, ma
viene denunciato e arrestato» (Marco
Grossi). «Ogni inquadratura sarebbe
da citare, per mettere in rilievo la scultoreità
delle pose, il bloccaggio degli sguardi,
la composizione in profondità di
campo e in diagonali che correlano i personaggi
fra loro, la figurazione in contrasti
estremi fra bianchi e neri. Se ne potrebbe
dedurre un’impressione di staticità
complessiva; essa è tuttavia animata,
anzi musicalmente ritmata sia dagli stacchi
di montaggio, che sono sistematicamente
oppositivi, anche se non necessariamente
dissonanti, sia dai movimenti di macchina,
sempre tesi non ad accompagnare un’azione
ma, visibili come sono, a “coreografarla”.
[…] Tutto questo rende difficile
se non impossibile parlare di neorealismo,
anche se alcuni referenti di cui il film
di De Santis è debitore vengono
ascritti a tale scuola: La terra trema
(1948) di Luchino Visconti e In nome della
legge (1949) di Pietro Germi; ma, appunto,
sono film come questi a farci capire che
sotto l’etichetta neorealista si
celano – accomunate certo da analoghi
propositi di denuncia sociale –
le più contrastanti tendenze formali.
Ma De Santis guarda oltre frontiera: a
Orson Welles (al quale potrebbe ascriversi
l’uso anomalo della voice over),
al messicano Emilio Fernàndez (all’epoca
assai considerato in Italia, e maestro
dei contrasti bianco-neri col suo direttore
della fotografia Gabriel Figueroa, al
quale non è escluso che Piero Portalupi
si sia ispirato per le luci di questo
film), nonché ai sovietici più
formalisti, non solo Sergej Ejzenštejn
[…] ma anche a registi come Grigorij
Aleksandrov. E presumibilmente il didattismo
esibito di Non c’è pace tra
gli ulivi deve molto a questi ultimi»
(Aprà).
Copia restaurata
dalla Cineteca Nazionale
domenica
26 | h 17.15
La
garçonnière (1960)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura:
Carlo Bernari [non accreditato], G. De
Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra,
Elio Petri, Ugo Pirro [non accreditato];
fotografia: Roberto Gerardi; scenografia:
Ottavio Scotti; musica: Mario Nascimbene;
montaggio: Otello Colangeli; interpreti:
Raf Vallone, Eleonora Rossi Drago, Marisa
Merlini, Gordana Miletic, Nino Castelnuovo,
Maria Fiore; origine: Italia; produzione:
Ramo Film; durata: 90’
«Alberto
Fiorini, un costruttore edile di Roma,
è pedinato dalla moglie Giulia,
che lo sospetta di adulterio. Difatti
l’uomo, che ha già avuto
altre relazioni extraconiugali, è
ora innamorato della giovanissima indossatrice
Laura, la cui frequentazione lo illude
di poter ritrovare la giovinezza ormai
lontana. Giulia, accompagnata in auto
dall’amica Pupa, vede Alberto entrare
furtivamente in un edificio, e poco dopo
scorge Laura avvicinarsi al castello»
(Marco Grossi). «Disagio, crisi,
malessere: ripercorrendo buona parte della
letteratura storiografica dedicata al
cinema italiano dei primi anni ’60,
ci si imbatte in una serie di sinonimi
che aspirano a riassumere il senso di
una lunga stagione perennemente “transitoria”,
priva di unitarietà e articolata
in percorsi individualizzati (quelli degli
Autori), ma al tempo stesso livellata
dall’incertezza e dalla carenza
di vere prospettive. L’eredità
del neorealismo è spezzata, disconosciuta,
rinnegata […]. In questo contesto
storico, Giuseppe De Santis realizza il
proprio “film del malessere”,
La garçonnière; la differenza
profonda con il cinema coevo è
nella lucidità dell’assunto
ideologico e nella chiarezza degli intenti.
Per De Santis il transito verso il nuovo
decennio potrà pur essere infido
e scivoloso, ma il passo deve essere sicuro
e la meta fissata» (Bandirali).
h
18.45
Cesta
duga godine dana (La strada lunga un anno,
1958)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Elio Petri, Gianni Puccini; sceneggiatura:
G. De Santis, Maurizio Ferrara, Tonino
Guerra, E. Petri, G. Puccini, Mario Socrate;
fotografia: Marco Scarpelli; scenografia:
Zelimir Zagotta; costumi: Oto Reinger,
Jagoda Buic Bonetti; musica: Vladimir
Kraus-Rajeteric; montaggio: Boris Tesija;
interpreti: Silvana Pampanini, Eleonora
Rossi Drago, Massimo Girotti, Bert Sotlar,
Milivoje Zivanovic, Gordana Miletic; origine:
Jugoslavia; produzione: Jadran Film; durata:
143’
«Gli
abitanti di un piccolo centro di montagna
sembrano condannati a una eterna disoccupazione.
Una mattina Guglielmo, stanco di aspettare
un lavoro che non arriva mai, decide di
costruire una strada per collegare il
paese al mare. Fa credere ai suoi compaesani
di aver ricevuto l’incarico dalle
autorità pubbliche allo scopo di
coinvolgere i tanti disoccupati nell’iniziativa
e costringere poi gli amministratori a
retribuire tutti i lavoratori per l’impresa
portata a compimento» (Marco Grossi).
«Io avrei voluto fare grandi romanzi,
film d’impatto sociale, e invece,
nella migliore delle ipotesi, le condizioni
produttive del cinema italiano mi consentivano
commedie come Giorni d’amore. In
Jugoslavia ho girato La strada lunga un
anno, tutto il film l’ho ambientato
in Dalmazia scegliendo posti che assomigliassero
alla mia Ciociaria il più possibile,
le pietruzze, le montagne, le case, il
mare, le strade; l’edizione italiana,
poi, è parlata tutta in dialetto
del basso Lazio. Per il film ho goduto
di libertà assoluta, gli jugoslavi
mi chiesero soltanto, per ragioni diplomatiche,
di mettere una didascalia iniziale, dove
si spiegava che la storia si svolgeva
in un paese immaginario, per non evitare
noie con lo Stato italiano. La scelta
di girare in Jugoslavia, comunque, mi
fu fatta pagare. Venezia rifiutò
il film perché “troppo lungo”,
e in Italia praticamente non lo vide nessuno»
(De Santis). Nomination all’Oscar
per il miglior film straniero (1958).
h
21.30
Italiani
brava gente (1964)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: Ennio De
Concini, G. De Santis; sceneggiatura:
Sergej Smirnov, E. De Concini; fotografia:
Toni Secchi; scenografia: Ermanno Manco;
costumi: Luciana Marinucci musica: Armando
Trovajoli; montaggio: Mario Serandrei,
Claudia Moskvina; interpreti: Arthur Kennedy,
Andrea Checchi, Riccardo Cucciolla, Raffaele
Pisu, Tatiana Samoilova, Zanna Prokhorenko;
origine: Italia/Urss; produzione: Galatea,
Coronet, Mosfilm; durata: 148’
«È
il 1941 e la campagna italiana in Russia
è appena iniziata. Su un treno
viaggiano soldati provenienti da tutte
le regioni d’Italia. La Storia si
fonde con le vicende personali di alcuni
uomini. L’ottimismo di chiara fede
fascista di alcuni non è condiviso
dall’esperto e onesto colonnello
Sermonti» (Marco Grossi). «Opera
numero 10 e penultima del regista di Fondi
[…], Italiani brava gente, nel narrare
le tragiche vicende della spedizione italiana,
fra il 1941 e il 1943, nella campagna
di Russia della seconda guerra mondiale
(una guerra “senza ragione, senza
scuse, senza onore” l’aveva
definita Pietro Nenni), si costruisce
su uno dei principi fondanti del cinema,
la “qualità dell’immagine
di attualizzare il passato” (Edgar
Morin), in virtù del quale la ripresa
(il “ciò che è stato”)
si attualizza nella visione (in “ciò
che è”), e l’allora
e l’altrove si mutano misteriosamente
in un qui e in un ora e questa straordinaria
peculiarità è ottenuta creando
un evidente sfasamento temporale fra immagini
e colonna sonora, laddove le prime, presentate
nel loro farsi, sono commentate dalle
voci dei soldati che in quell’assurdo
conflitto perderanno, uno dopo l’altro,
la vita. Come nell’Antologia di
Spoon River, essi ricordano e in tal modo
rievocano e la memoria diventa il segno
significante dell’opera, pensiero
che si fa atto. Il futuro della loro morte
commenta già il presente della
loro esistenza» (Giacci).
martedì
28 | h 17.00
Uomini
e lupi (1957)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Tonino Guerra, Elio Petri; sceneggiatura:
G. De Santis, E. Petri, Ugo Pirro, Gianni
Puccini, con la collaborazione di Ivo
Perilli; fotografia: Piero Portalupi;
scenografia: Ottavio Scotti; costumi:
Graziella Urbinati; musica: Mario Nascimbene;
montaggio: Gabriele Varriale; interpreti:
Silvana Mangano, Yves Montand, Pedro Armendàriz,
Irene Cefaro, Giulio Calì, Guido
Celano; origine: Italia-Francia; produzione:
Titanus, SGC; durata: 104’
«La minaccia
dei lupi incombe come ogni inverno su
un piccolo paese delle montagne abruzzesi,
Vischio. Le belve feroci fanno strage
di pecore e costituiscono una minaccia
anche per gli animali rinchiusi nelle
stalle. Attirati da un premio di ventimila
lire per ogni belva uccisa, due lupari
raggiungono il paese. Giovanni, uomo maturo,
ha già ucciso molti lupi e ha necessità
di guadagnare per mantenere la moglie
Teresa e il figlio Pasqualino. Ricuccio,
giovane simpatico e baldanzoso, sembra
in realtà interessato solo a sfruttare
la situazione e l’ospitalità
per andare a caccia di donne» (Marco
Grossi). «Il sale di Uomini e lupi,
il segreto della sua tenuta, sta proprio
nell’essere fuori dal tempo, opus
perfettamente preistorico. Del mito e
dell’epos, prima del patto della
legge e della moneta (che mai come qui
prende la sua forma dalla caciotta: Pasqualino
ci vorrebbe adescare pure il lupo). Non
ci sono preti né sindaci, guardie
né carabinieri. Solo magazzini
e osterie, anche se Ricuccio non ha bisogno
di vino per vaneggiare: gli basta la finestra
d’un paese di fantasmi per lanciarsi
in comizi d’amore» (Sanguineti).
Per gentile
concessione di Rai Cinema, copia proveniente
dalla Cineteca di Bologna - Ingresso gratuito
h
19.00
Un
marito per Anna Zaccheo (1953)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis,
Alfredo Giannetti, Salvatore Laurani;
sceneggiatura: G. De Santis, A. Giannetti,
S. Laurani, Elio Petri, Gianni Puccini,
Cesare Zavattini; fotografia: Otello Martelli;
scenografia: Carlo Egidi; costumi: Paolo
Ricci; musica: Rino da Positano; montaggio:
Gabriele Varriale; interpreti: Silvana
Pampanini, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti,
Umberto Spadaro, Monica Clay, Franco Bologna;
origine: Italia; produzione: Domenico
Forges Davanzati; durata: 106’
«Il matrimonio
è il sogno di Anna Zaccheo, una
bellissima ragazza figlia di un conducente
della funicolare di Napoli. Il ricco pescivendolo
don Antonio, rozzo e sgraziato, smania
per averla in sposa e le invia continuamente
dei fiori per tentare di apreire una breccia
nel suo cuore. Ma egli non è certo
l’uomo dei sogni di Anna, che sembra
invece interessata ad Andrea, un marinaio
di Ancona bello e gentile» (Marco
Grossi). «Con Un marito per Anna
Zaccheo, […], De Santis rielabora
alcuni dei temi che gli stanno particolarmente
a cuore (l’eterna casistica del
desiderio amoroso, la forza e la debolezza
del sex appeal femminile, il conflitto
tra modernità e tradizione) nella
cornice quanto mai propizia del filone
napoletano dove, com’è universalmente
noto, le coordinate sociali o politiche
lasciano il passo al melodramma della
diversità tenace, dell’emigrazione
senza scampo di una classe subalterna
efficacemente identificata nel proprio
immaginario, nella propria sottocultura,
nella propria sfrontata “rappresentabilità”,
nel proprio – come si direbbe oggi
– look» (Caprara).
Per
gentile concessione di Cristaldi Film,
copia proveniente dalla Cineteca di Bologna
- Ingresso gratuito
h
21.00
Un
apprezzato professionista di sicuro avvenire
(1972)
Regia:
Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura:
G. De Santis, Giorgio Salvioni; fotografia:
Carlo Carlini; scenografia e costumi:
Giuseppe Selmo, Enrico Checchi; musica:
Maurizio Vandelli; montaggio: Adriano
Tagliavia; interpreti: Lino Capolicchio,
Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Robert
Hoffmann, Ivo Garrani, Yvonne Sanson;
origine: Italia; produzione: Filmnova;
durata: 134’
«Il
giovane avvocato Vincenzo Arduini è
figlio di un onesto capostazione. Molto
ambizioso, sposa Lucia, figlia di un costruttore
senza scrupoli, e diventa assessore all’urbanistica.
Durante la prima notte di matrimonio scopre
di essere impotente. Ma il suocero vuole
a tutti costi un nipote e, scartata l’ipotesi
di adottare un bambino per non essere
messo in ridicolo pubblicamente, Vincenzo
convince Lucia a farsi fecondare da un
altro uomo» (Marco Grossi). «Nel
1972, per riuscire finalmente a chiudere
un progetto, costituisco una società
di produzione con lo sceneggiatore Giorgio
Salvioni. Un apprezzato professionista
di sicuro avvenire è di nuovo un
film ispirato a un fatto di cronaca, come
mi è accaduto quasi sempre, perché
la cronaca mi ha sempre stimolato. Il
film è stato bocciato in censura
due volte, perché la vicenda di
un prete che scopre la dimensione del
rapporto sessuale faceva scandalo. Il
film è stato massacrato dalla critica…»
(De Santis). «Un apprezzato professionista
di sicuro avvenire è un film, indubbiamente
personale, le cui qualità principali
possono facilmente venire scambiate per
difetti: gusto dell’ampollosità,
del melodramma, enorme sovraccarico di
ironia […]; al punto tale che la
sceneggiatura, che avrebbe potuto funzionare
come l’ispirazione socio-poliziesca
di un Damiano Damiani, si trasforma in
una gigantesca farsa, un irridente numero
da grand-guignol che va letto al di là
delle apparenze. […] Situato, malgrado
le risonanze della sceneggiatura, nettamente
al di fuori della corrente sociopolitica
della produzione italiana, Un apprezzato
professionista è una favola delirante
sull’arrivismo, le ossessioni sessuali,
l’impotenza, che Lino Capolicchio,
Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Ivo
Garrani e Yvonne Sanson interpretano con
tutta la dismisura ironica richiesta.
Peraltro, il film risulta piuttosto rivelatore
di una comunanza di idee e di fattura
tra De Santis e il Petri di Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto»
(Christian Viviani).