Il
Marco Müller Atto II si è concluso con la
vittoria del western – gay di Ang Lee Brokeback
Mountain, mettendo per una volta d’accordo
pubblico e critica della 62 esima Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica di Venezia. Ma cosa rimarrà
nella storia delle opere viste in questi dieci intensissimi
giorni? Dopo i dissesti dell'edizione scorsa, i ritardi
planetari, le proiezioni alle 2 di notte, la Mostra
di quest’anno si è evidenziata per un’organizzazione
degna di questo nome, con proiezioni puntuali che hanno
quasi sempre permesso di visionare il maggior numero
di pellicole, e nonostante i controlli della sicurezza
ed il passaggio sotto i metal detector che bonificavano
la zona rossa intorno al cuore del Festival, una certa
agilità di entrata nelle sale nonostante le immancabili
file di priorità (color rosso, blu, giallo, verde
in rigoroso ordine).
Se dal punto di vista organizzativo piccoli ma significativi
passi in avanti si sono fatti, dovendo analizzare il
Festival dal punto di vista artistico iniziano i dolori.
Dei 20 film in Concorso almeno la metà erano
mediocri e francamente non si capisce, se non per mancanza
di alternative, il loro inserimento in tale vetrina.
Parliamo in ordine sparso di O
Fatalista di Bothelo, Verso
Sud di Cantet, Gabrielle
di Chéreau, Garpastum
di German, The Brothers Grimm
di Gilliam, Proof di Madden,
Persona non
grata di Zanussi, Takeshis’
di Kitano. Un concorso mediocre dominato da opere
stilisticamente classiche, temi poco originali e presunti
“autori” in forti crisi di identità,
se non bollitti. Le maggiori delusioni del concorso
vengono da Terry Gilliam cui evidentemente la ricerca
di un successo commerciale lo spinge a d’esautorare
il suo innegabile talento visivo in operine insignificanti
come I Fratelli Grimm;
da un autore culto che prigioniero dell’immenso
ego propone una sorta di ribollita del suo cinema come
nell’autoreferenziale e misteriosissimo Takeshis’
capace di fiaccare anche i fan più accesi; dal
cinema francese capace oramai di parlarsi addosso e
specchiarsi nella sua arroganza autoriale. Per il cinema
italiano apriamo una parentesi. I tre film in concorso
I giorni dell’abbandono
di Faenza, La bestia nel cuore
della Comencini e La seconda notte
di nozze di Avati, come preannunciato in tempi
non sospetti hanno assai tiepidamente scaldato il cuore
della Mostra, con alcuni distinguo. Faenza, il peggiore
della combriccola, sonoramente deriso e fischiato durante
la proiezione stampa, mette in scena il dolore di una
donna abbandonata dal suo uomo per una ragazza più
giovane. Dialoghi letterari, sceneggiatura zoppicante
e forzata in molti passaggi narrativi (la scena del
cane otto che corre sul palcoscenico entra di diritto
nella classifica dello stracult di questa mostra), recitazioni
manierata di una Buy prigioniera del suo personaggio
di sfigata – quale uomo francamente non la lascerebbe
– giustificano almeno in parte l’accoglienza
del film al di là di presunti tiratori scelti
ingaggiati (ma da chi?) per fischiare il film a priori.
Un esame di coscienza caro Faenza non guasterebbe! Conseguenza
della cattiva accoglienza de I
giorni dell’abbandono, il divieto agli
accreditati cinema (la massa di appassionati, cinefili
di varia estrazione e provenienza, utilizzati a riempitivo
nelle diverse proiezioni, soprattutto quelle vuote in
Sala Grande per non sfigurare con gli ospiti presenti)
di partecipare alle proiezioni mattutine stampa –
che se è vero non previste per quel tipo di accredito,
qualora ci fossero posti liberi sono sempre stati lasciati
entrare - dei due film italiani targati Rai Cinema.
Il motivo? Gli accreditati cinema si sarebbero resi
colpevoli di aver fischiato il film di Faenza e danneggiato
la proiezione ufficiale della sera in Sala Grande. Quindi
per Pupi Avati, sala mezza vuota ed accreditati cinema
a spasso. Complimenti al coraggio di Rai Cinema, i cui
dirigenti probabilmente a tempo perso lavorano per la
Digos, essendo riusciti nella sala buia e strapiena
a identificare, ma non isolare, i presunti fischiatori.
Nutriamo forti dubbi sulla vera natura di questi ma
tant’è. Cara Rai Cinema, la stessa che
minacciò un paio di anni fa di non presentare
più suoi film dopo la mancata premiazione di
Buongiorno, notte di Bellocchio, se temi reazioni
negative, se non dormi per il giudizio della critica
e del pubblico, perché continui a fare pressioni,
tu o chi per te, per avere film in Concorso a Venezia?
Al di la di questo il film della Comencini è
un onesto film per la tv, con una sceneggiatura scontata
e prevedibile e interpretazioni manierate da parte del
cast. La Mezzogiorno, premiata come miglior attrice
(sigh!) è ormai prigioniera della recitazione
alla Muccino, pochi sussurri e molte grida. Facile che
il film di Pupi Avati risulti il migliore del terzetto.
Grande merito va dato alla magnifica interpretazione
di Antonio Albanese (signori in piedi, applausi) mai
così bravo nel giocare su una recitazione dimessa
e volutamente sottotono. Accanto a lui la scoperta Katia
Ricciarelli e a mio giudizio un mediocre Neri Marcoré.
Troppo ingessato, troppo teatrale se vogliamo, Marcoré
quando è chiamato ad uscire dalle sue strepitose
imitazioni e macchiette televisive, mostra una carenza
di veridicità allarmante. Il film comunque segna
un passo in avanti rispetto agli ultimi mediocri lavori
di Avati. Alla fine il miglior film italiano risulta
Mary di Abel Ferrara (co-produzione
italoamericana), che attraverso un complicato gioco
metacinematrografico mette in scena l’avvento
del tredicesimo apostolo, Maria Maddalena. Diseguale
a tratto confusionario, Mary ha il pregio di aver suscitato
le prime vere emozioni del festival... ed è stato
giustamente premiato con il Premio Speciale della Giuria.
Tra i premi del concorso il Leone D’oro è
stato assegnato al western a tematica gay di Ang Lee,
non nuovo nel trattare con estrema sensibilità
ed un occhio allo spettacolo tematiche omosessuale (suo
il Banchetto di Nozze)
che come dicevamo all’inizio a messo d’accordo
un po’ tutti anche se non brilla certo per originalità
ed emozione. Leone d’oro vinto al fotofinish sul
grande favorito, l’inno alla libertà di
stampa firmato da George Clooney che con il suo Good
Night and Good Luck si è aggiudicato l’Osella
alla Miglior Sceneggiatura e la Coppa Volpi all’interpretazione
maschile di David Strathairn. La seconda opera registica
del divo George a mio giudizio rimane troppo didascalica,
esemplificativa, a tratti predicatoria per convincerci
del tutto, mentre la passione sociale, l’emozione
viene messa da parte. Bello ma asettico. Un secondo
film si è aggiudicato anch'esso due premi, il
francese Les amants reguliers
di Philip Garrell, amato dai critici militanti,
un amor fou ambientato nella Parigi del 1969, in bianco
e nero, con uno stile registico teatrale e volutamente,
esasperatamente intellettualoide che personalmente non
ci ha convinto nonostante il Premio alla Regia ed al
contributo tecnico per il Direttore della Fotografia
William Lubtchansky. Ha invece convinto Enrico Ghezzi,
che acquistandone i diritti di un passaggio televisivo
lo ha già programmato in televisione, bruciandone
l’uscita in sala tra un mese per opera dell’Istituto
Luce. A bocca asciutta rimane uno dei film più
apprezzati come Sympathy for Lady
Vengeance di Park Chan-wook che andava a completare
la trilogia sulla vendetta iniziata con Sympathy
for Mr Vengeance e Old
Boy. Meno estremo e sanguinario, più controllato
dei precedenti avremmo apprezzato almeno un riconoscimento
alla regia al pari di Fenando Meirelles (City
of God) capace di dare un’impronta stilistica
originale ad un film di genere come il thriller movie
tratto da un romanzo di John Le Carré The
Constant Gardner. Delusioni per entrambi.
Questo è stato il concorso della 62esima Mostra
Internazionale d’Arte cinematografica. Probabilmente
le cose migliori si sono viste nelle sezioni collaterali
con un fuori concorso dominato stranamente da pellicole
horror prevalentemente deludenti (Fragile,
The Exorcism of Emily Rose)
risollevati dal piccolo gioiello rappresentato da The
Descent che ha chiuso il Festival. Le Giornate
delgi Autori, spazio indipendente ospitato all'interno
della Mostra hanno presentato opere tra le più
interessanti sia dal punto di vista stilistico che tematico,
gettando un occhio libero da convenzioni e lacci produttivi
originale e mai banale sul mondo in cui ci troviamo
a convivere. Uno sguardo indipendente sulla società
contemporanea attarverso occhi "stranieri"
come l'America vista da registi italiani (Before
it had a name di Giada Colagrande), iraniani
(Man
Push Cart
di Ramin Bahrani),
serbi (Love
di Vladan Nikolic)
o rivisitazioni originali di generi cosnolidati
come il thriller (13 – TZAMETI
di Géla Babluani),
il melodramma (Falling... In Love
di Ming Tai-wang),
il film storico (La
passione di Giosuè l'ebreo
di Pasquale Scimeca),
l'horror (Naboer
di Pal Sletaune)
e la commedia (C.R.A.Z.Y.
di Jean-Marc Vallée).